Il processo

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  1. schmit
     
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    Un famoso giurista e penalista Francesco Carnelutti,soleva dire:"meglio assolvere un reo che condannare un innocente"
    ma sono passati i tempi i cui la giustizia sentiva profondo il senso della moralita'.
    A cura di Elio
    Francesco Carnelutti a trent'anni dalla scomparsa
    Atti del Convegno di studi, Udine, 18 novembre 1995


    Il volume riunisce gli interventi del Convegno di studi dedicato all'insigne giurista udinese Francesco Carnelutti, la cui figura viene descritta esaminando i numerosi campi delle sue attività: operatore del diritto, giurista, maestro della procedura e del diritto sostanziale civile e penale.

    IL PROCESSO INFINITO

    Parlare oggi di giustizia penale significa, inevitabilmente, parlare di

    ragionevole durata del processo. Non vi è occasione pubblica, dalle

    solenni inaugurazioni dell’anno giudiziario alle proposte di riforma

    parlamentari o di governo, dai dibattiti televisivi o alle polemiche

    giornalistiche, nelle quali non venga posta questa priorità: il processo

    penale dura troppo, è inceppato, farraginoso, insomma non funziona.

    La ragionevole durata del processo è un monito costituzionale

    vilipeso, dunque occorre intervenire. Fin qui, tutti d’accordo. Ma i

    problemi nascono non appena la discussione si sposta sul piano della

    diagnosi del male, e dunque sulla conseguente terapia.

    Avvocatura e magistratura si scontrano frontalmente: il processo dura

    troppo perchè strangolato da eccessi garantistici, o perchè la struttura

    amministrativa è al collasso? E quali sarebbero, poi, questi eccessi

    garantistici o questi meccanismi amministrativi inceppati, ed in quale

    misura incidono davvero sulla durata del processo?

    Il dato davvero sorprendente è che tutti ne parlano, ma nessuno aveva

    mai pensato di verificarlo nell’unico modo in cui è possibile farlo:

    direttamente sul campo della quotidianità processuale.

    Così, quando la Camera Penale di Roma e la Fondazione Enzo

    Tortora ci hanno proposto di svolgere questa ricerca, abbiamo subito

    compreso che i dati così raccolti avrebbero segnato un punto di non

    ritorno di questa cruciale discussione: non più generici ed arbitrari

    riferimenti a cause pretese o reali dei ritardi, ma certezze statistiche.

    Naturalmente, è stato necessario organizzare ed affinare lo strumento

    di indagine, che per la sua peculiare tecnicità ha richiesto che i rilevatori

    fossero in grado di registrare con precisione e correttezza la dinamica di

    ciascuno degli oltre 1.600 processi monitorati nella aule monocratiche e

    collegiali del Tribunale di Roma.

    L’ampiezza del campione, la sua dettagliata precisione, ed il fatto che

    esso sia stato raccolto nel più grande Tribunale italiano, conferiscono ai

    risultati di questa ricerca una attendibilità ed una forza illustrativa del

    fenomeno di valore certamente generale.

    Ebbene, il risultato ha un significato chiarissimo ed inequivocabile: il

    processo penale è paralizzato dalla catastrofica condizione della struttura

    amministrativa deputata a gestirlo; le garanzie processuali – a prescindere

    dalle diverse opzioni culturali e politiche cui ci si voglia legittimamente

    ispirare – non svolgono, obiettivamente, alcuna influenza apprezzabile sui

    tempi di svolgimento del processo penale.

    La lettura delle tabelle è univoca: i processi – si sa – arrivano al

    dibattimento già invecchiati nella fase delle indagini (anche in relazione

    ad imputazioni banalissime, oggetto di indagini puramente routinarie), e

    quando inizia finalmente il dibattimento, deve passare attraverso l’imbuto

    di adempimenti che la macchina amministrativa, semplicemente, non

    riesce ad organizzare con standard di efficienza minimamente decenti.

    È impressionante constatare quanti processi vengano rinviati perchè è

    stata omessa la citazione del testimone, o è fallita la loro citazione per

    banali quanto sistematici inceppamenti (indirizzi sbagliati, cartoline

    postali che non ritornano, notifiche intempestive), e quanti altri perchè i

    testimoni, regolarmente citati, semplicemente non compaiono, tradendo

    così la diffusa percezione da parte dei cittadini, di una scarsa

    autorevolezza di quella intimazione dell’Autorità Giudiziaria (e come dar

    loro torto, quando poi accade che i testimoni, regolarmente comparsi, si

    vedono rimandati ad una nuova udienza, e poi magari ad un’altra ancora,

    dopo aver trascorso inutilmente ore ed ore davanti la porta dell’aula?).

    Colpisce constatare quanto alto sia il numero dei rinvii dovuti alla

    assenza del Giudice (o di uno dei Giudici); e quanti siano dovuti al carico

    abnorme dei ruoli, che rende pressocchè impossibile rispettare il

    programma istruttorio di quella giornata. E così di seguito.

    Ed allora è legittimo chiedersi perchè, nel dibattito sul tema della

    irragionevole durata del processo, si tenda a porre prevalentemente

    l’accento su di un preteso eccesso di garanzie difensive, che si vorrebbe

    incompatibile con un processo rapido e giusto. Si tratta, da un lato, di un

    uso strumentale, ideologico della paralisi del processo penale, per

    diffondere la insofferenza dei cittadini e del ceto politico nei confronti

    delle garanzie processuali, vissute come un ostacolo alla sacrosanta

    esigenza della repressione penale; dall’altro, di un luogo comune

    pericolosamente diffuso nelle esemplificazioni mediatiche di un processo

    che, come dimostriamo con questa ricerca, è ben altro da ciò che si pensa

    comunemente.

    Questa ricerca, letta con la doverosa serenità, scrive la parola fine

    sotto la speciosa, strumentale contrapposizione tra garanzie ed efficienza:

    è un risultato straordinario, una occasione conoscitiva che sarebbe

    irresponsabile sottovalutare.

    Essa infatti consente di lasciarsi alle spalle, con quella falsa

    rappresentazione della realtà, una contrapposizione ideologica che finisce,

    poi, per sterilizzare ogni serio tentativo di risolvere davvero il problema

    della durata del processo, che è certamente irragionevole; e dunque,

    auspicabilmente, di concentrare le energie critiche del mondo forense

    verso obiettivi concretamente realizzabili.

    Gian Maria Fara

    Presidente dell’Eurispes

    IL DIRITTO AD UN PROCESSO GIUSTO

    Mi aveva sempre insospettito, nel dibattito politico sulla crisi della

    Giustizia italiana, questa insistenza a volte parossistica sul tema della

    ragionevole durata del processo penale, e non certo perchè il problema

    non fosse reale: le migliaia di condanne accumulate dal nostro Paese da

    parte della Corte Europea di Giustizia – sebbene in prevalenza riferite al

    processo civile – ne sono la più inequivocabile conferma.

    Quello che mi pareva assai poco convincente era questo frequente

    collegamento del fenomeno ad un preteso eccesso di garanzie che

    strozzerebbero il processo, rendendolo ingovernabile, ingestibile, e perciò

    irragionevolmente lungo.

    Questa insistenza continua, sui troppi cavilli grazie ai quali avvocati

    ed imputati riescono a paralizzare i processi in attesa di lucrare la

    prescrizione del reato, mi è sempre parsa una insidiosa, efficace ma del

    tutto arbitraria speculazione.

    L’esperienza della Fondazione Enzo Tortora, cioè di chi da anni è

    impegnato sul fronte della giustizia giusta, ci ha sempre raccontato una

    storia diversa: e cioè che le garanzie difensive non sono mai troppe, e

    semmai sono ancora troppo poche. Ancor prima dell’avvio del processo.

    Perciò abbiamo accolto con entusiasmo e convinzione la proposta

    della Camera Penale di Roma di patrocinare questa ricerca, la cui

    autorevolezza statistica è garantita, come meglio non si potrebbe,

    dall’Eurispes.

    I risultati hanno confermato le aspettative, e la fondatezza di quei

    miei sospetti.

    Grazie ai dati raccolti da questa bellissima ricerca – la prima del

    genere, l’unica davvero utile per capire che cosa accade nel processo

    penale italiano – si potrà finalmente discutere delle cause reali della

    paralisi della giustizia penale, senza speculazioni ideologiche.

    Oggi sappiamo con certezza ciò di cui siamo stati convinti da sempre:

    le garanzie processuali e la efficienza della Giustizia non sono termini

    antitetici. Possiamo finalmente lavorare, con serietà e consapevolezza,

    alla realizzazione di un processo penale rapido ed efficiente, senza che

    questo pregiudichi un diritto costituzionale di tutti i cittadini al quale non

    vogliamo e non possiamo rinunziare: il diritto ad un processo giusto.

    Con l’auspicio che questo lavoro possa far riflettere gli operatori del

    diritto e possa servire al legislatore per identificare i guasti e porvi

    rimedio. Con i fatti, non solo con le parole.

    Francesca Scopelliti

    Presidente della Fondazione per la Giustizia Enzo Tortora

    LA VERITÀ CHE MANCAVA

    Da molto tempo avevamo maturato l’idea, noi della Camera Penale di

    Roma, che fosse semplicemente indispensabile sottoporre ad un

    monitoraggio finalmente serio ed accurato il processo penale, nell’unico

    modo utile, cioè direttamente nelle Aule, osservando e registrando nel

    modo più minuzioso possibile ciò che in esse accade.

    Questa esigenza muoveva dalla osservazione di un paradosso:

    parliamo tutti, avvocati, magistrati, Governo, di irragionevole durata del

    processo, eppure non siamo in possesso di un dato che sia veramente utile

    a farcene comprendere le ragioni.

    Ciascuno di noi evoca esperienze, allude a prassi consolidate, dà per

    presupposte verità fattuali indiscutibili: ma non appena proviamo ad

    esprimerle in cifre, percentuali e dati, restiamo senza parole. Perchè quei

    dati, semplicemente, non ci sono (non c’erano, possiamo dire ora,

    orgogliosamente).

    Si obietterà: ma non sono forse dati quelli annualmente snocciolati da

    Procuratori Generali e Presidenti di Corti di Appello nelle solenni

    cerimonie di inaugurazione dell’Anno giudiziario? Non sono dati quelli

    raccolti dal Ministero attraverso le banche dati dei vari Distretti

    giudiziari?

    Certamente, rispondiamo, e sono utili e preziosi: ma se l’obiettivo è

    comprendere le cause reali dei tempi e dei modi di svolgimento del

    processo penale, ci sentiamo di affermare che sono dati sostanzialmente

    inutili, e forse perfino fuorvianti.

    Serve certamente sapere quanto tempo impiega mediamente un

    processo ad essere celebrato, o quanti processi si concludono con la

    prescrizione, quante le assoluzioni, quante le condanne: ma nessuno di

    quei dati è in grado di dirci perchè in concreto il processo abbia quella

    durata e quegli esiti.

    D’altronde, non potrebbe che essere così: i dati che sono stati raccolti

    in questa ricerca sono certamente oggettivi, cioè consacrati nei verbali di

    ciascuno dei processi monitorati, ma nessuno ha mai nemmeno pensato di

    rilevarli e registrarli in una qualche banca dati.

    Nessuno ha mai pensato di rilevare, per fare un esempio, il dato –che

    pure nei verbali di udienza è puntualmente registrato e descritto – del

    numero di processi che si rinviano perchè la notifica della citazione del

    teste non è andata a buon fine; o di quelli che si rinviano perchè

    l’imputato era impedito a comparire; o perchè il testimone, pur

    regolarmente citato, non è comparso; o perchè l’avvocato non è munito

    della necessaria procura speciale per richiedere il rito abbreviato o perchè

    è impegnato in un altro processo; o perchè il Giudice titolare è assente, o

    il Collegio è in composizione precaria; o perchè manca il trascrittore, non

    si trova l’interprete, non è disponibile l’aula. Mai, assolutamente mai.

    Ed allora, ci siamo detti: di che cosa stiamo parlando?

    Eppure, ecco il paradosso, non si parla d’altro. Il processo dura

    troppo, irragionevolmente troppo, riformiamolo subito. Ma perchè duri

    troppo, semplicemente, non si sa.

    Fioccano, però, le proposte di riforma; e tutte accomunate da una

    premessa che viene data da tutti (avvocati esclusi, naturalmente) per

    scontata. Troppe garanzie, troppi formalismi soffocano lo svolgimento di

    un processo penale che, altrimenti, qui e là irrobustito da qualche

    potenziamento strutturale, filerebbe via liscio come l’olio.

    Perciò, basta con il difensore impegnato in più processi: che si trovi

    un bel sostituto, e non intralci. Basta con questa ossessione di dover

    informare l’imputato di ogni nuova fase processuale: ha un difensore? Ci

    pensi lui.

    Bene (anzi, male): ma i dati?

    Prescindiamo per un attimo da discussioni, come dire, ideologiche o

    culturali, e chiediamoci: abbiamo una idea minimamente seria e concreta

    di quanto i meccanismi normativi che si vorrebbero riformare incidano

    realmente sul fenomeno (durata irragionevole del processo) che quelle

    riforme vorrebbero risolvere?

    La discussione, ci siamo detti evocando l’ormai abusato aforisma, è

    grave ma non è seria.

    Così è nata l’idea, che abbiamo avvertito davvero come cogente ed

    irrinviabile, di raccoglierli, finalmente, questi dati di cui tutti parlano, ma

    che nessuno possiede.

    Ebbene: quei dati, faticosamente e minuziosamente rilevati ed

    attentamente letti, parlano da soli.

    Vi basterà leggerli: non giova alla loro sostanza alcun ulteriore

    commento. Si potrebbe dire che il processo penale non è affatto una

    macchina che non può funzionare, ma che è una macchina che non si sa

    far funzionare (o peggio che non si vuol fare funzionare). Uno dei meriti

    che ha questa indagine è di aver sfatato una leggenda, rivelando in

    maniera puntigliosamente scientifica e razionale che non è affatto

    l’astrusità dell’ingranaggio, o una eventuale ipertrofia garantista, ad

    inceppare inevitabilmente e quasi fatalmente il meccanismo del processo

    (così come da più parti si vuol far credere), ma un uso disattento, spesso

    maldestro dello strumento, a provocare l’irragionevole durata ed ogni

    ulteriore conseguenza in termini di danno all’imputato innocente, in

    termini di prescrizione e di spreco delle risorse.

    Si legge, tuttavia, nella Relazione al disegno di legge “Mastella”,

    contenente “Disposizioni in materia di accelerazione e razionalizzazione

    del processo penale” che “criterio guida” che ispirava il disegno «consiste

    nella costante ricerca di un punto di equilibrio tra le garanzie

    dell’imputato e l’efficienza del processo, secondo i canoni ricavabili

    dall’art. 111 della Costituzione»: garanzie dell’imputato ed efficienza del

    processo sono, in questa visione, termini contrapposti. Da un lato il

    processo che “vuole” essere rapido, dall’altro, le garanzie dell’imputato

    che lo rallentano. L’opera di mediazione del legislatore si risolve, dunque,

    in un lavoro sindacale, consiste dichiaratamente in una distribuzione

    equilibrata del “costo” del recupero della celerità fra i “vari attori” del

    processo.

    Bisognerebbe provare a rovesciare questa visione del processo nella

    quale, nell’ottica del nuovo legislatore, processo e garanzie stanno l’uno

    di fronte e l’altro. La contrapposizione risulta difatti del tutto arbitraria: il

    processo stesso consiste in una serie di atti posti a garanzia dell’accusato.

    Garanzie e processo non possono essere termini contrapposti in quanto

    l’uno si risolve nell’altro, ed in quanto il processo, nel suo insieme, è esso

    stesso un sistema di garanzie.

    Se anche può convenirsi sul fatto che – come si legge ancora nella

    Relazione – «lunghezza dei processi, alto indice di prescrizione dei reati,

    presenza di un sistema di garanzie difensive spesso meramente formale

    (…) hanno progressivamente reso il sistema penal-processuale in gran

    parte inidoneo a rispondere alle esigenze che lo sviluppo sociale

    richiede», una tanto generica evocazione di elementi che costituiscono di

    volta in volta semplici concause o addirittura gli effetti stessi della mala-

    giustizia, non aiuta certo ad individuare in maniera eziologicamente

    rigorosa quali siano le vere cause strutturali alle quali addebitarsi il

    malfunzionamento del processo penale, né tanto meno aiutano ad

    individuare i possibili rimedi.

    Tuttavia, immaginare rimedi e riforme come variabili indipendenti

    rispetto al corretto esame delle cause e di un approfondito studio del

    processo, significa far girare a vuoto le riforme e procurare danni

    irrimediabili. Ed è in questa prospettiva che la ricerca in esame, può

    essere non solo un contributo concreto alla conoscenza dello stato del

    processo penale in Italia, ma anche un punto di partenza di una nuova

    metodologia.

    Già Francesco Carnelutti, nell’oramai lontano 1956, scriveva che

    «(…) gli uomini di governo danno atto periodicamente delle esigenze di

    una “giustizia “rapida e sicura” ma basterebbe che avessero conoscenza

    delle strettezze materiali, spesso inconcepibili, nelle quali il servizio si

    compie per rendersi conto che in pratica codeste declamazioni non hanno

    alcuna serietà. Se al servizio giudiziario si dedicassero le cure che si

    prodigano al servizio ferroviario o alla circolazione stradale, le cose

    comincerebbero ad andare diversamente; ma i valori economici contano

    ancora purtroppo assai più che i valori morali».

    Risulta tutta da approfondire la questione relativa ai costi della

    giustizia, e da verificare l’affermazione secondo la quale non sarebbe vero

    «che in Italia si spende troppo poco per la giustizia». Ma è senz’altro vero

    che comunque questo «non vuol dire che si spenda sempre bene»

    (Guarnieri, 2003) se, come tutti sappiamo, negli ultimi tempi il Tribunale

    di Roma è rimasto privo delle risorse necessarie a garantire lo

    svolgimento di un servizio fondamentale quale quello dei trascrittori

    d’udienza e se sono venuti incredibilmente a mancare i fondi per

    l’acquisto della carta per fotocopie.

    Proprio nei termini evocati da Carnelutti il processo è un “valore

    morale” la cui crisi va piuttosto cercata in questo suo costante rapporto

    negativo con le risorse economiche, umane e politiche, piuttosto che in

    una immaginaria, e tutta strumentale, linea di conflittualità con le garanzie

    dell’imputato.

    Se è, dunque, vero che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia

    esaminata equamente e pubblicamente ed entro un termine ragionevole

    (…)» (art. 6 comma 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo),

    ciò significa che la ragionevole durata del processo è un criterio che

    governa la legalità dei mezzi e non può mai essere usato contro l’imputato

    ed a scapito delle sue garanzie. E ciò perché anche la ragionevole durata è

    una garanzia per l’imputato e non può essere solo un fine per il processo.

    Dalla lettura di questi dati si comprende allora come non sia affatto

    vero che «una prescrizione breve e senza istituti che, nei modi opportuni

    la paralizzino, lascia il processo senza difese di fronte alle strategie

    puramente dilatorie e le impugnazioni pretestuose»: ciò che in verità

    lascia il processo “senza difese” sono le semplici prassi giudiziarie, sono i

    tempi morti incredibilmente lunghi del processo penale, tempi che fanno

    sì che i fascicoli dormano anni, ad indagine chiusa, in attesa della

    fissazione del dibattimento, e che altri anni trascorreranno inutilmente fra

    un grado e l’altro del giudizio. Si comprende come i danni più gravi, al

    processo in sé – e non solo, dunque, alla sua ragionevole durata – non

    siano affatto procurati dalle strategie dilatorie ovvero dalle impugnazioni

    pretestuose, ma dalla straordinaria inefficacia del sistema delle

    notificazioni.

    De jure condendo ne deriva, dunque, una indicazione preziosa: inutile

    cercare populistiche scorciatoie nella potatura delle garanzie

    dell’imputato. Non sono queste il vero intralcio al processo. Inutile

    intervenire sulla velocizzazione del processo se si lascia intatta la strada

    dissestata sulla quale esso dovrebbe correre. Merito della ricerca è l’aver

    colto che il processo, in quanto complesso di regole e di garanzie, è solo il

    soft-ware la cui effettiva efficacia dipende dall’hard-ware che ne

    garantisce il funzionamento.

    Sia chiaro. Non che il processo penale non possa e non debba essere

    riformato, semplificato e razionalizzato. Sono molte le articolazioni

    processuali sulle quali si può e si deve intervenire al più presto,

    organicamente. E tuttavia il funzionamento o meno di questo o

    quell’istituto non può essere valutato al di fuori delle strutture che ne

    garantiscono, o meglio, che ne dovrebbero garantire, il funzionamento,

    come si trattasse di un noumeno, di una cosa in sé, e non di un organismo

    destinato a vivere nel mondo delle cose concrete. Pensare e realizzare

    questa indagine significa soprattutto apprezzare e proporre un nuovo

    modo di avvicinarsi ai problemi ed alle conflittualità che essi

    determinano. Partendo dal basso, da molto in basso: dallo studio e dalla

    comprensione delle cose che si devono giudicare e che si vogliono

    cambiare.

    Gian Domenico Caiazza

    Presidente Camera Penale di Roma

    Francesco Petrelli

    Vice-Presidente Camera Penale di Roma

    L’INDAGINE

    PREMESSA

    La Camera Penale di Roma ha concordato con l’Istituto Eurispes la

    realizzazione di una indagine di tipo statistico avente ad oggetto il

    monitoraggio delle udienze dibattimentali trattate dalle sezioni penali del

    Tribunale Ordinario di Roma, in composizione monocratica e collegiale.

    Scopo della indagine è l’accertamento delle modalità di svolgimento

    di tali processi, con particolare attenzione alla evidenziazione delle

    patologie incidenti sulla ragionevole durata degli stessi.

    La Fondazione per la Giustizia Enzo Tortora, in persona della

    Presidente Francesca Scopelliti, ha a sua volta deliberato di concorrere

    con un contributo alla realizzazione di questa ricerca, attesa la sua

    evidente rilevanza per la concreta difesa del diritto di tutti i cittadini ad un

    processo equo, giusto e di durata ragionevole.

    Peraltro, Eurispes ha ritenuto – dato l’interesse scientifico della

    ricerca – di concorrere alla sua realizzazione senza alcuno scopo di lucro.

    In tal modo, mentre il finanziamento assicurato dalla Fondazione Tortora

    ha potuto garantire la copertura delle spese vive della ricerca, essa è stata

    per il resto realizzata da Eurispes senza alcun ulteriore aggravio di spesa

    da parte della Camera Penale di Roma.

    OGGETTO DELLA RICERCA

    I processi monitorati sono esclusivamente quelli in fase

    dibattimentale, celebrati presso le sezioni in composizione collegiale e

    monocratica del Tribunale Ordinario di Roma, con esclusione delle

    sezioni distaccate.

    Sono stati esclusi dal monitoraggio – oltre che i procedimenti

    celebrati avanti i Giudici della Udienza Preliminare e quelli avanti le

    sezioni della Corte di Appello – anche i procedimenti celebrati con rito

    direttissimo, e gli incidenti di esecuzione; scopo della ricerca è infatti

    quello di ricostruire in termini statistici le diverse ragioni di rinvio

    incidenti sulla durata media dei processi ordinari, che sono la assoluta

    maggioranza dei processi penali, fuori dalle semplificazioni (di natura

    certamente eccezionale) dovute alla scelta dei riti alternativi laddove

    celebrati prima del rinvio a giudizio, nonchè alla adozione del rito

    direttissimo da parte del P.M. procedente.

    D’altro canto, il numero dei processi definiti in via diversa ed

    alternativa al processo ordinario è un dato statistico noto sia a livello

    nazionale che a livello del distretto di Corte di Appello di Roma (si veda,

    in proposito, la Relazione del Presidente della Corte di Appello di Roma

    in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario), e potrà dunque

    consentire ogni utile ponderazione dei dati raccolti con la presente

    indagine.

    È invece necessario sottolineare come i dati qui raccolti siano di

    natura assolutamente inedita: nessuna ricerca analoga risulta essere mai

    stata svolta.

    IL RILEVAMENTO DEI DATI: CRITERI E METODOLOGIE ADOTTATE

    I processi monitorati sono 1.632, raccolti in cinque diverse giornate di

    rilevamento.

    Il rilevamento è stato effettuato da oltre cinquanta tra avvocati e

    praticanti avvocati con esperienza professionale penalistica, selezionati

    dalla Camera Penale di Roma su base volontaria.

    Ciascun rilevatore è stato dotato di un questionario predisposto

    (quanto al merito delle questioni processuali oggetto di monitoraggio)

    dalla Camera Penale di Roma e, per quanto attiene alla sua redazione in

    termini correttamente utilizzabili per una indagine di tipo statistico,

    dall’Istituto Eurispes, che ha poi elaborato i dati raccolti.

    Per ogni udienza sono dunque stati riempiti questionari in numero

    corrispondente ai processi trattati.

    Preme sottolineare come il rilevamento dei dati abbia rigorosamente

    seguito l’intero arco temporale delle singole udienze, nel senso che tutti

    i rilevamenti sono iniziati con l’apertura della udienza, e si sono conclusi

    con la chiusura della udienza stessa.

    Sebbene infatti, sotto il profilo strettamente statistico, ciò che rileva è

    il numero dei processi monitorati e non l’arco di tempo entro il quale tale

    rilevamento si effettui, si è ritenuto di garantire al massimo la

    completezza e la attendibilità dei dati rilevati, tenendo conto della diffusa

    prassi per la quale i rinvii o invece le trattazioni dei processi si

    concentrano, il più delle volte, in specifiche fasce orarie. Monitorare

    dunque solo le prime ore di una udienza, o solo le ultime, avrebbe potuto

    di fatto alterare il valore del dato statistico.

    www.fainotizia.it/2008/01/21/indagi...e-che-nessuno-v

    Edited by schmit - 12/5/2015, 17:02
     
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  2. Mari-anna
     
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    A proposito di processi,lo sai che stanotte non ho chiuso occhio pensando a quella povera donna della Franzoni, che se fosse veramente innocente come continua a dire, devessere stata una notte d'inferno, ma soprattutto penso a quelle creature che ha dovuto lasciare.Come cresceranno? quali guasti psichici verranno prodotti in loro senza la mamma vicina?
     
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  3. schmit
     
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    Al carcere della Dozza a Bologna se lo aspettavano. Annamaria Franzoni è pur sempre una madre condannata in via definitiva per aver ucciso il figlio. E le «leggi» non scritte del mondo penitenziario sono uguali per tutti. Anche per la mamma di Cogne. Non è il benvenuto chi fa del male ai bambini. Contro di lei le «nuove compagne» hanno urlato di tutto: «Maledetta», «Assassina », «Vattene da qui». Hanno picchiato cucchiai e stoviglie sulle sbarre delle celle. Un'ora e mezza di subbuglio. Una rivolta che si è placata solo all'alba di giovedì, in un carcere da 450 posti e 1050 detenuti, in perenne sott'organico di personale.

    Per Annamaria era pronta una cella singola, l'unica nella sezione femminile dove ora sono rinchiuse solo 35 donne, invece delle solite 80. Un'ala del carcere è chiusa: lavori in corso perché nelle nuove celle ci saranno anche le docce. Quella di Annamaria è una stanza provvisoria, destinata ai «nuovi giunti», di solito per qualche ora. Lei ci resterà per qualche giorno, il tempo per abituarsi a questa nuova vita che l'accompagnerà almeno per i prossimi 5-6 anni. Il pg di Torino Vittorio Corsi ha chiesto che venga applicato l'indulto: 3 anni di sconto sui 16 decisi dalla Corte. Poi c'è l'affidamento in prova, la libertà vigilata. Anche la buona condotta dà buoni sconti.

    Per ora però, Annamaria dovrà far tesoro dei sei colloqui mensili con la famiglia che avrà a disposizione a breve. Stavolta non sono le due settimane scontate alle Vallette di Torino sei anni fa e lei non ne fa mistero: «Io impazzisco lontano da mio marito e dai miei figli. Io non sono un'assassina», ripete con la voce rotta dall'emozione di rendersi conto, ormai, che per un po' la sua quotidianità sarà ristretta in quelle mura.

    In cella è guardata a vista. Un occhi discreto la sorveglia giorno e notte. I primi giorni sono i più drammatici, l'ansia e la depressione sono pesanti. «I colloqui con lo psichiatra, il medico, l'educatore e il responsabile della sorveglianza hanno suggerito di procedere con un'attenta sorveglianza a scopo precauzionale», spiega il provveditore alle carceri Nello Cesari. Tra qualche giorno anche Annamaria dovrà dividere i tre metri per quattro con un'altra ospite. Qui ci sono molte extracomunitarie, donne accusate di spaccio o furti. C'è anche Antonella Conserva, accusata di aver rapito e ucciso con i complici il piccolo Tommaso. «Preferirei stare con un'italiana », ha detto Annamaria alla vice direttrice. «E' molto provata e dimessa – racconta un'agente che l'ha vista – ma non ha mai avuto scatti d'ira, neppure quando le altre detenute le hanno urlato addosso. Non le ha proprio ascoltate, come se niente fosse». Gli abiti di ricambio in un borsone bianco e blu glieli ha portati il suocero, Mario Lorenzi, che però non ha potuto farle visita. Una faccia stravolta dal dolore la sua.

    In carcere si è presentato anche il consigliere regionale dell'Italia dei Valori Paolo Nanni, originario pure lui di San Benedetto Val di Sembro. Con la collega del Pd Gabriella Ercolini ha appena intravisto Annamaria. Era seduta in corridoio, in attesa di una visita medica. «Non fa che chiedere dei suoi bambini, vuole sapere come stanno e ha paura che senza di lei possano soffrire», dice il consigliere. «Ho visto freddezza in quello sguardo, quello che abbiamo sempre visto – si lascia andare un'agente –. Si vede che è molto giù, ma in quegli occhi non ho visto dolore». Fuori dalle mura c'è chi la rabbia l'ha mostrata appendendo a un cancello un lenzuolo e la scritta: «Dipingetevi la faccia di un rosso vergogna e liberate una mamma innocente».


    Cristina Marrone



    Medea, canta la Callas

     
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  4. Spica
     
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    non mi va di parlarne. e la mia opinione rimane la stessa anche se, nel frattempo, in questi anni, delitti del genere - genitori su figli - si sono ripetuti.

    non li ho seguiti mediaticamente - questo come quelli - ma so che l'autore o l'autrice erano regolarmente sotto shock, impietriti sul luogo.

    e di regola son finiti subito all'ospedale, magari piantonati ma in ospedale. non in galera dopo due mesi.

    altra cosa che dissi al tempo è che mi pare umanamente impossibile che un uomo metta al mondo un altro figlio con una donna sospettata di avergliene già ucciso uno se non è convinto della sua innocenza.


    ..ma si sa che l'italiano medio ha bisogno di un colpevole purchessia per poter dire "giustizia è stata fatta".
    esattamente come i media han bisogno di vendere per continuare a essere media.



     
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  5. schmit
     
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    sono d'accordo.
    La societa' ha sempre bisogno dei capri espiatori e spesso anche la storia stravolge le verita'.

    Medea, di Christa Wolf
    Infanticida? Ecco, per la prima volta, il dubbio. Un’alzata di spalle canzonatoria, un volgersi altrove...
    lunedì 2 agosto 2004, di Pina La Villa - 10255 letture

    Medea / Christa Wolf. - edizioni e/o, 1996

    Di Medea sappiamo che è stata tradita da Giasone e lei, per vendetta e per la furia che la possedeva, ha ucciso i suoi figli, i suoi e di Giasone.

    E’ la storia che ci ha tramandato Euripide con la sua tragedia. Un personaggio affascinante ma incomprensibile, barbaro, quello di Medea.

    Ma, racconta Christa Wolf, quell’uccisione dei figli da parte di una donna appartenente ad una società, la Colchide, in cui vigeva un mite matriarcato, non la convinceva. E poi, Medea: un nome che, etimologicamente, significa "colei che consiglia" e ha la stessa radice - med - che nelle lingue indoeuropee ha la parola medico. Medea è una guaritrice, che usa il sapere delle madri. Un sapere che, da Euripide in poi, è fatto passare per pericolosa magia e Medea è diventata così la maga che avvelena. Per Christa Wolf le cose non stanno esattamente così. E il suo romanzo inizia non a caso partendo dal nome: "Pronunciamo un nome e, poiché le pareti sono porose, entriamo nel tempo di lei, incontro desiderato, dal fondo del tempo ricambia lo sguardo senza esitare." E, dal nome, l’indagine.

    Con l’aiuto di altre studiose Christa Wolf rintraccia le fonti sul mito antecedenti la tragedia di Euripide. "Infatti, che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli abitanti di Corinto - colpevoli di aver massacrato i figli di Medea - emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso: quindici talenti d’argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al drammaturgo per questa storia di disinvolta cosmesi di stato, utile per presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le feste di Dioniso" (dalla postfazione di Anna Charloni).

    Il mito viene reinterpretato, come è proprio dei miti. Ma Christa Wolf lo fa con una consapevolezza storica e letteraria che rende il suo romanzo veramente di ampio respiro, un esempio di come si possa ancora dialogare col mondo antico, così vicino e al tempo stesso diverso da ritrovare intatta la sua capacità di provocare emozioni e di far riflettere su temi di respiro universale.

    Il romanzo racconta la vicenda di Medea attraverso sei voci. Sono le voci della stessa Medea, di Giasone, di Glauce, di Acamante, di Leuco, di Agameda.

    Attraverso le voci la sua storia viene raccontata, composta e ricomposta nei suoi elementi, in ciò che è stato tramandato e in ciò che è rimasto sepolto.

    In Euripide Medea rappresenta la violenza irrazionale contrapposta alla razionalità patriarcale della civiltà greca. Christa Wolf ribalta questa lettura. Medea è depositaria di un sapere più vicino all’esperienza, ai sensi. Un sapere che non conforta la "razionalità" del potere, che si rifiuta di condividerla. E’ questo suo diverso sguardo che le fa scoprire la menzogna e la violenza su cui è basato il potere, sia nella nativa Colchide sia a Corinto. Ecco perché tradisce il padre consentendo a Giasone di conquistare il vello d’oro; ecco perché la sua presenza a Corinto diventa a un certo punto intollerabile. Da qui ha inizio la persecuzione e la sconfitta di Medea. Invidie, paure, ambizioni si scatenano contro di lei, la straniera, la donna saggia, la maestra, la guaritrice. Attraverso le voci capiamo le ragioni di tutti, ma soprattutto i meccanismi del potere e della violenza.

    E’ una lettura appassionante, quella del romanzo di Christa Wolf, malgrado metta in scena una storia e dei personaggi noti. Solo un personaggio è del tutto inventato. Si tratta di Oistros, uno scultore dai capelli color ruggine, a casa del quale Medea si rifugia durante un terremoto, poco prima che si dispieghi la persecuzione nei suoi confronti, e che diventa il suo uomo. E’un personaggio che consente all’autrice di restituirci la vitalità della donna Medea e di aggirare il passaggio obbligato del compianto per la donna abbandonata, il vittimismo connesso alla rielaborazione del mito di Medea che fa tutt’uno con lo scopo preciso di ogni persecutore, che è di togliere autorevolezza al vinto.

    La forza della indagine, la volontà di trarre dalla sepoltura del passato e delle altre interpretazioni la storia di donne e uomini reali, che si erano allontanati nella rarefazione del mito,danno alla scrittura di Christa Wolf la potenza e la forza del linguaggio puro degli antichi, della lingua dell’indagine e della verità filosofica, ma anche della poesia. E confermano la grandezza della scrittrice tedesca che già col precedente romanzo, Cassandra, ha utilizzato la forza del mito per riscrivere la storia, una storia che si ripete. Medea come i tedeschi orientali nel 1990, a cui viene chiesto di negare la propria storia.

    "Ho cominciato a interessarmi a Medea nel 1990. Lo stesso anno in cui la DDR [Repubblica democratica tedesca] stava sparendo dalla storia. Ho cominciato a domandarmi perché nella nostra società tutto viene consumato e nello stesso tempo si va sempre alla ricerca di un capro espiatorio. I miei primi appunti su Medea sono del 1991. Di lei conoscevo come tutti la versione di Euripide (..) Mentre pensavo a Medea mi venne in aiuto il caso. Una studiosa di Basilea, curatrice del sarcofago di Medea presso il museo locale mi spedì un suo articolo dal quale risulta che Euripide per primo attribuisce a Medea l’infanticidio, mentre fonti antecedenti descrivono i tentativi di Medea di salvare i tre figli portandoli al santuario di Era. (Da un’intervista a Christa Wolf del 1997)


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    Scheda biografica su Christa Wolf, su: Antenati


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    > Medea, di Christa Wolf
    27 settembre 2004, di : jessica Cosmi

    Medea.Voci. Un titolo che ci getta a capofitto nella mitologia greca,un sottotitolo che lascia intendere una nuova”versione dei fatti”.E così è,non per una narrazione rivisitata né per una nuova versione teatrale(seppur la struttura del testo teatrale sia ripresa dalla Wolf),ma per soliloqui nettamente separati tra loro nello spazio di capitoli,undici,per sei personaggi:Medea,che lo apre,lo chiude e interviene per un totale di quattro di volte,Giasone e Leuco,che non solo si esprimono ma hanno diritto di replica;isolati invece,gli interventi di Acamante,Glauce e Agameda. Quasi totalmente assente la voce narrante,una Christa Wolf che sembra ascoltare in confidenza amichevole ciò che viene detto colloquialmente,ma che esprime al meglio la sua voglia di rivoluzionare un mito con tutta probabilità corrotto per millenni:voglia di verità,voglia di capire come potesse una donna proveniente da una cultura matriarcale uccidere i propri figli,una donna di nome Medea,”colei che porta consiglio”,non morte! Altro punto cardine,oltre al tradizionale amore tormentato nei confronti di Giasone,è il pregiudizio razziale,che scade nell’intolleranza fino ad arrivare alla lapidazione dei suoi figli da parte dei Corinzi:una sorta di moderno Ku Klux Klan. E’anche la convenzione ad essere presa di mira dalla Wolf,che si diverte a sottolinearne il vuoto totale. Una rivoluzionaria,una donna,una maga,questo fa paura di Medea,e se vivesse oggi probabilmente la società avrebbe la stessa reazione nei confronti di un’intelligenza così viva da schiacciare sotto il suo peso uomini dell’alta società e del governo:Christa Wolf non ha fatto altro che farla riemergere,non ha inventato nulla.
    Rispondere al messaggio
    > finalmente la verità
    27 maggio 2005, di : giorgia |||||| Sito Web: http://www.girodivite.it

    Sono decisamente d’accordo con te, sto preparando la tesina d’esame per la maturità e porto la rielaborazione del mito di Medea nel novecento... Credo che sia la scrittrice che tanto amo Christa Wolf che uno fra i più importanti letterati italiani del secondo novecento Pier Paolo Pasolini le abbiano finalmente reso giustizia: Medea non è assolutamente una donna cattiva che la società deve estirpare ma è in realtà ciò che le donne dovrebbero essere oggi: delle persone forti, vitali, che prima di avere una relazione con un uomo la devono avere con loro stesse. Bisogna avere il coraggio e la forza di dire IO sono DONNA in un mondo dove ancora esserlo fa paura. Se solo a volte riuscissimo a essere come le donne dell’antichità...
    Rispondere al messaggio
     
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  6. Spica
     
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    ..ecco.. ricordavo di aver letto questa ipotesi un paio di anni fa o giù di lì:


    possibile emorragia cerebrale




    evidentemente non è stata neppure presa in considerazione anche se pare che qualcuno ci abbia scritto un libro.


    ..e se fosse andata davvero così sarebbe atroce in ogni senso.



     
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  7. schmit
     
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    Sono stravolta, perche' è sempre stato quello che avevo pensato anch'io fosse successo e senza essere un medico,ma pensavo a qualcosa del genere...

    Cogne/ Il neurochirurgo Migliaccio riapre il caso: "Samuele è morto di cause naturali, ecco le prove"
    Venerdí 23.05.2008 14:16

    IL CASO SI RIAPRE

    Ecco come è morto Samuele: Di Massimiliano Fanni Canelles

    E Internet riapre il caso. Il medico Migliaccio: è morto di aneurisma, di Cinzia Lacalamita

    IL SONDAGGIO

    "A fronte di questa nuova tesi secondo la quale Samuele sarebbe morto a causa di una violenta emorragia cerebrale vorresti la riapertura del caso di Cogne? VOTA

    IL FORUM

    Annamaria Franzoni è stata condannata in via definitiva a 16 anni di carcere. Che cosa ne pensi? Dì la tua

    LA CRONACA

    "Assassina, vattene". Le carcerate contro la Franzoni

    LO SPECIALE



    Annamaria Franzoni


    Cogne, sei anni di tragedia "mediatica"

    Cogne/ Ecco le motivazioni della sentenza d'Appello: la Franzoni ha ucciso per "conflitto interiore". Così è stato ucciso Samuele

    I COMMENTI

    Caro Samuele, ora devi riposare in pace, di F. Bomprezzi

    Caso Cogne/ I lettori rispondono alla Letterina a Samuele di Franco Bomprezzi

    Cogne/ La mamma assassina sconti il suo debito. Di Cinzia Lacalamita

    LE TAPPE DELLA VICENDA

    Cogne/ Cinque anni di colpi di scena

    Di Giovanni Migliaccio
    Specialista in Neurochirurgia Consulente Tribunale di Milano Dirigente U.O. di Neurochirurgia

    Come tutti, ho appreso la notizia dell'arresto di Anna Maria dalla televisione. Ne sono profondamente rammaricato. Era scontato! La Magistratura non poteva farci una figuraccia di fronte al mondo intero. Ma, se permettete, di questo epilogo anche i "Franzoni" sono responsabili.

    L'unica strada che avrebbe sconfessato giudici ,RIS, psichiatri, criminologi e varia umanità era quella della morte naturale. Sostenerla da parte loro avrebbe, a mio parere, sicuramente portato la Cassazione a richiedere nuove prove. <se la stessa interessata non crede alla morte naturale, sicuramente, nel suo intimo, sa di esser stata lei>, così avranno pensato i giudici e, tutto sommato, non si può dar loro torto!
    Non hanno prove materiali, avevano, a tal fine, la prova inconfutabile di una autopsia fatta tanto per farla, avevano la prova che Anna Maria in questi 6 anni ha vissuto come una donna e madre esemplare, ma dovevano darla in pasto all'opinione pubblica per salvare la reputazione delle Istituzioni ed evitare, in caso di riconosciuto errore giudiziario, un risarcimento plurimilionario. Insomma un po' i Lorenzi-Franzoni se la sono cercata loro stessi questa conclusione!

    Io continuo a ritenere che un delitto,si, è stato commesso: è stata uccisa la giustizia! Non è il primo nè sarà l'ultimo:a Firenze viene assolto, dopo anni di gogna, sospetti e illazioni, perchè IL FATTO NON SUSSISTE il maggior indiziato come mandante per i delitti del Mostro;a Gravina hanno arrestato,messo alla gogna un innocente che avrebbe passato il resto della sua vita in galera se i corpicini dei figli non si fossero mai trovati,a Garlasco non riescono a trovare un colpevole,come a Perugia.
    L'assassino della ragazza di Roma di tanti anni fa (Simonetta Cesaroni se non ricordo male) è ancora libero come quello della contessa Filo della Torre. Fenaroli e Ghiani hanno passato la vita in galera e poi si è scoperto (e riferito dai nostri liberi giornalisti, in sordina,) che ad uccidere la moglie furono i servizi segreti.
    Per non parlare di Enzo Tortora.

    La Franzoni ha ucciso il figlio? Bisognava allora condannarla all'ergastolo. E' stata invece libera per 6 anni, ha cresciuto due figli, ha condotto una vita normale senza un minimo cedimento, è stata ridotta la pena da 30 a 16 anni senza che il PM facesse una piega, è stata riconosciuta sana di mente e lo ha dimostrato in questi anni (con buona pace dei criminologi e degli psichiatri che avevano predetto la sua confessione nel giro di un mese).


    Il bimbo è morto almeno due ore dopo l'evento, ma si è dato credito all'ora della morte stabilita dal Medico Legale nonostante l'ora del decesso sia stata segnalata in una Struttura Pubblica, l'Ospedale di Aosta. Le lesioni riscontrate sul cadavere sono compatibili con una devastante emorragia cerebrale da cause naturali. Il medico legale non ci ha neanche pensato! L'autopsia è stata incompleta e quindi quasi una formalità, dando già per scontato il risultato prima di iniziarla. Infatti, per esempio, non è stata eseguita alcuna indagine sulle regioni sessuali del piccolo Samuele per ricercare o escludere una violenza sessuale da parte di un ipotetico mostro: non era necessario, era stata la madre perchè..............perchè?

    Sono molto addolorato e non posso che augurare ad Anna Maria di non diventare veramente pazza!

    E' stato pubblicato un libro da parte di una giornalista senza il mio permesso accaparrandosi i diritti di autore. Non importa! Se ha avuto qualche vantaggio economico, lo considero come mia beneficenza nei suoi confronti. Qui di seguito riassumo i punti secondo i quali ritengo possibile la morte naturale, della quale sono convinto pienamente, ma allo stesso tempo, e già da tempo,sono pronto ad ammettere di aver preso una cantonata, a patto che la cantonata venga seriamente dimostrata.




    Gallery


    Mi sento in dovere sia come cittadino che come medico,di rendere noto quanto appunto è venuto a mia conoscenza e le deduzioni conseguenti, dopo la lettura della perizia necroscopica sul cadavere del bambino Samuele Lorenzi, per la cui morte, ritenuta da causa violenta, è stata definitivamente condannata in I°grado la sua mamma.

    Leggendo infatti attentamente la perizia necroscopica e,visionando il materiale fotografico, non posso non rilevare che in essa vi sono moltissime contraddizioni ed errori di valutazione che ritengo fondata la convinzione che il piccolo sia realmente morto per cause naturali, cioè a seguito di una imponente quanto improvvisa e violenta emorragia cerebrale,a seguito della rottura di un aneurisma,e/o di una malformazione vascolare congeniti.

    segue dettagliatamente la diagnosi del medico.

    Io credo che il caso dovrebbe essere riaperto prima che possa succedere una disgrazia alla signora Franzoni. Questo è un caso di coscienza che ogni cittadino è chiamato a farsene carico.

     
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  8. schmit
     
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    tutto l'articolo qui

    http://canali.libero.it/affaritaliani/cron...iapreilcaso.htm





     
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  9. schmit
     
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    Uno striscione con su scritto "Dipingetevi la faccia di un rosso vergogna, liberate una mamma innocente", è stato appeso, con un grappolo di palloncini variopinti, sulla strada dell'ingresso del carcere Dozza di Bologna, dove è rinchiusa Anna Maria Franzoni (Ansa)
     
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  10. schmit
     
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    Visita a sorpresa in prigione con il marito e il suocero
    "Avvocato, la prego, mi dica la verità. C'è ancora qualcosa che si può fare?"
    I figli in cella da Annamaria
    "Ho speranze di uscire presto?"



    BOLOGNA - "Avvocato, la prego, mi dica la verità. C'è ancora qualcosa che si può fare? Ho ancora qualche speranza che si rendano conto che non ho ucciso Samuele?" chiede con un soffio di voce Annamaria Franzoni. L'avvocato Paola Savio resta in silenzio. Nella sala colloqui del carcere di Bologna la domanda della madre di Cogne suona ancor più disperata. Sono le 13 di ieri: Paola Savio è la prima volta che incontra la sua assistita da detenuta e l'emozione è forte per entrambe.

    L'avvocato torinese ha deciso di far visita ad Annamaria la sera prima. Per confortarla ma soprattutto per tentare di farle incontrare il marito e i figli. È infatti quando alle 11 di ieri Paola Savio arriva alla stazione di Bologna la prima domanda di Stefano Lorenzi che la sta aspettando con il madre Mario per accompagnarla alla Dozza è: "Potrò vederla oggi? Potrà vedere anche Davide e Gioele?". Mezz'ora dopo la Ford Fiesta verde con a bordo i tre attraversa i cancelli del carcere. Nell'ufficio del vicedirettore inizia una trattativa che si risolve in pochi minuti. "È prassi che il neodetenuto possa incontrare i familiari. Lo si fa per tutti, non si tratta di favoritismi. Potete portare anche i bambini" spiega la reggente della Dozza.

    Stefano Lorenzi e il padre escono in fretta dal carcere: corrono a prendere Davide e Gioele che aspettano di rivedere la mamma in un rifugio sicuro in città. Nessuno si accorgerà, al loro ritorno, che sulla Ford Fiesta verde ci sono anche i due bimbi, nascosti sotto la giacca nera dell'avvocato Savio stesa sul sedile posteriore. La giovane legale intanto raggiunge il parlatorio. Annamaria arriva scortata dalle guardie. È provatissima. Gli occhi arrossati confermano che ha pianto molto. Ha il viso tirato, stanco. E quando vede Paola Savio non riesce a trattenere le lacrime poi stringe la mano dell'avvocato e non la lascia più. "Mi dica, con sincerità, se ho ancora qualche speranza? - chiede ancora Annamaria Franzoni - Io non so se sarò in grado di affrontare tutto questo. Mi hanno accolto bene qui dentro. Tutti: guardie e detenute. Sono in cella da sola ma tutti quelli che ho incontrato ieri durante le visite mediche o all'ufficio matricola mi hanno detto che devo farmi coraggio. Credo che abbiano capito la tragedia che sto vivendo. Ho sentito dire che hanno scritto che volevo dividere la cella solo con detenute italiane. Non è vero, non ho mai chiesto nulla di simile. Continuano a scrivere bugie di me. Lo hanno fatto sin dall'inizio. Sono sei anni che leggo menzogne, solo menzogne. Nessuno ha protestato per la mia presenza qui. Sono qui per una colpa che non ho commesso. Non ho ucciso Samuele, non mi stancherò mai di ripeterlo. Non ho ammazzato il mio bambino, non avrei mai potuto farlo. Gli volevo bene, era una parte di me... ".

    Anche l'avvocato Savio è commossa. Si sforza di respingere il nodo di pianto che le blocca la gola e risponde a quella donna disperata che le stringe la mano: "Non è finita Annamaria. Possiamo tentare la revisione del processo. Lavoreremo tutti per una nuova analisi delle prove scientifiche. E ci sono altre strade giudiziarie che si possono percorrere... ". Poi, cercando di essere il più professionale possibile, Paola Savio spiega che potrà incontrare marito e figlio per sei ore al mese, che non dovrà stare in carcere per sedici anni dato che potrà godere dell'indulto e degli altri benefici previsti dalla legge come spetta a tutti i detenuti.

    Annamaria però sembra non ascoltare. Tra le lacrime chiede: "Perché non c'è Stefano con lei? Quando potrò vederlo? E i bambini? Me li faranno vedere?".

    L'avvocato ora non si trattiene più e piange quando le annuncia: "Davide e Gioele saranno qui tra poco. E anche Stefano e Mario. Abbiamo avuto il permesso dalla direzione del carcere". Annamaria stenta a credere alle sue orecchie. "Davvero potrò vederli ora? I bambini e anche Stefano?" e la Savio tra le lacrime ripete: "Si, si te lo giuro, Stefano e suo padre sono appena andati a prendere Davide e Gioele. Li porteranno qui tra poco. I piccoli stanno bene, vogliono solo vedere la loro mamma... ". È in quel momento che dalla porta della sala colloqui una guardia fa un cenno all'avvocato. "Sono arrivati adesso: devo lasciarvi soli - sussurra la Savio prima di dirigersi all'uscita - Tornerò presto".

    Stefano e suo padre appaiono sulla soglia del parlatorio. Non riescono a trattenere i bambini. Davide e Gioele corrono verso la madre che li stringe al petto piangendo. Resteranno con lei per un'ora. Stefano Lorenzi dopo le 14 telefonerà invece all'avvocato Savio, in viaggio verso Torino dicendo: "La ringrazio moltissimo. Oggi lei ci ha dato la forza di continuare a lottare per la verità. Annamaria lo ha capito. E poter abbracciare Davide e Gioele le ha ridato speranza. Non lo dimenticheremo mai... ".
    MEO PONTE
    (24 maggio 2008)

    da: Repubblica.it
     
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  11. Schou
     
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    Povera donna,che pena! Se dovesse un giorno risultare innocente, quei giudici andrebbero messi in galera a vita. Non si puo' essere superficiali con la vita degli altri!
     
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  12. Spica
     
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    CITAZIONE (Schou @ 25/5/2008, 11:49)
    Povera donna,che pena! Se dovesse un giorno risultare innocente, quei giudici andrebbero messi in galera a vita. Non si puo' essere superficiali con la vita degli altri!

    ..purtroppo la Franzoni non è un caso di cronaca a sè stante, o come tanti: è un "caso nazionale".

    intanto, negli ultimi tempi, la magistratura è stata colpita e affondata da troppe condanne raggirate, da un indulto che si è rivelato a caso, con troppi errori e superficialità.
    e la magistratura ha perso molta credibilità, diventando in un certo senso la tredicesima colonnina del gioco del lotto.

    quindi la magistratura doveva dimostrare la sua coerenza. e naturalmente - come tutti quelli che deviono dimostarre qualcosa - l'ha fatto nella più totale incoerenza, imponendosi nell'assenza di certezze.

    e in un caso troppo aperto per non far discutere, entrando nel ciclone della visibilità dove, in effetti, innocenza e colpevolezza sono un libero arbitrio.

    in ogni caso questa manovra risulta favorevole alla magistratura perché si è espressa.

    ..e di fronte a questo che cosa vuoi che conti il dietro alle quinte della Franzoni..?

    quello che conta realmente è la visibilità dei fronti. e quello colpevolista è sempre vincente quando ha da riscattare un'immagine.
    e per capirlo basta leggere le parole del procuratore d'aosta riportate dai quotidiani.

    in altre parole, la magistratura ha scelto, ha fatto il suo dovere, ha trovato un colpevole, l'ha processato, condannato e rinchiuso.
    e tutto questo è arrivato in un momento perfetto, dove la visibilità è massima.

    ..poi lasciamo perdere dove finiranno tutti quegli automobilisti con o senza patente, gonfi d'alcool o di droga che ogni giorno falcidiano qualcuno.. anche piccolo, bambino, invalido.. ai quali chissà se si apriranno mai le porte del carcere.


    ..e ora anche il fronte dell'innocentismo sta mutando nel solito fronte del pietismo.. ma quel che resta è "finalmente" la faccia pulita della magistratura.. finché non avrà bisogno di un'altra Franzoni.


     
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  13. schmit
     
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    io non mi sento ne' pietista ne' giustizionalista, ma questo processo ha molti buchi neri che non convincono.Per me questa non è giustizia!!!La legge esige prove provate per dichiarare colpevole una persona e qui le prove facevano acqua da tutte le parti.
     
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  14. Satja
     
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    Io pure la credo innocente.
     
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13 replies since 22/5/2008, 11:22   172 views
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