Panchatantra

Il libro di favole più antico del mondo

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    Il Panchatantra è una delle più antiche raccolte di favole della letteratura sanscrita.

    Risale al IV secolo d.C., ma si basa su più antiche raccolte di fiabe. Viene attribuito al saggio indiano Bidpai (vissuto attorno al 300 d.C.)

    I racconti, che per lo più hanno come protagonisti degli animali, sono suddivisi in cinque libri attorno ad alcune tematiche come la conquista degli amici, la perdita dei beni... ecc.


    Origine e creazione del Panchatantra


    Molto tempo fa nel regno di Mahilaropya, viveva un re che governava in modo encomiabile.

    Il re aveva tre figli, non molto intelligenti, e, per questo era molto preoccupato per la successione al trono. Cercava un buon insegnante, ben preparato nelle scritture, che riuscisse ad insegnarle ai figli in un tempo relativamente breve.

    I ministri gli avevano indicato un ottimo pandit (erudito), Vishnu Sharman. Ma questo valente erudito era abbastanza vecchio e il re si chiedeva come avrebbe fatto a completare l'insegnamento delle scritture ai figli, dal momento che a un allievo ben dotato erano necessari almeno dodici anni per apprenderle.

    Vishnu Sharman riuscì a convincere il re che avrebbe insegnato ai principi il comportamento di un vero re grazie a una serie di racconti che sarebbero stati molto più efficaci delle scritture.
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    Compilò una raccolta di cinque volumi di storie, chiamati Panchatantra, che dovevano appunto servire da guida ai giovani principi per apprendere il mestiere di re e imparare a comportarsi da saggi.

    Vishnu Sharma prese in carico i tre figli del re e se li portò a casa, iniziando subito la loro educazione.

    Suddivise le sue lezioni in interessanti storie che trattavano piacevolmente dei caratteri degli animali. Un dopol'altra le raccontò ai principi che ne seppero cogliere agevolmente l'essenza e applicarla alla vita. Al punto che ne furono completamente trasformati.

    Una volta concluso l'apprendimento, essi rientrarono a corte non più come i ragazzi rozzi e fastidiosi che erano stati, ma come giovani dotati di saggezza e diprudenza.

    Da allora molto tempo è passato. Re Amarshakti, i principi e l'ottimo Vishnu Sharma sono stati tutti travolti dalle spire del tempo; ma le immortali storie mantengono intatta la loro freschezza e ancora divertono coloro che vogliono istruirsi su tutti i risvolti della vita.

    Da allora, le storie raccolte e narrate da Vishnu Sharma sono conosciute come Panchatantra.

    Si tratta di cinque parti o libri, rispettivamente intitolati

    • Mitrabhed, differenze fra gli amici
    • Mitrasampraptih, l'unione fra amici
    • Kakolukiyam, sull'impraticabilità dell'amicizia con chi ci è decisamente nemico,
    • Labdhapranaasham, sull'intelligenza che resta incrollabile di fronte alle emergenze,
    • Aparikshitkakarkam, sulla possibilità di risolvere qualsiasi problema usando l'intelligenza capace di discriminare.




    Primo Tantra - Differenze fra gli amici



    1. Il bue abbandonato nella foresta

    Un tempo nella città di Mahilaropya, nel sud dell'India, viveva un pio mercante chiamato Vardhamaan.

    Una notte, mentre andava a dormire, improvvisamente prese ad ossessionare la sua mente il pensiero che avrebbe perso tutte le sue ricchezze. E a quel punto i suoi familiari lo avrebbero abbandonato.

    Così ogni notte Vardhamaan la passava a pensare ai modi in cui sarebbe potuto diventare sempre più ricco.

    Alla fine concluse che il commercio era il solo modo per guadagnare denaro onorevolmente.

    La mattina dopo, caricò diversi utensili e recipienti su un carro a buoi e si avviò verso Mathura con una carovana di mercanti. Pensava di vendere gli utensili nella città.

    Tiravano il carro due buoi, Mandak e Sanjeevak. Quando la carovana si addentrò in una folta foresta,uno dei due, Sanjeevak, scivolò in un terreno paludoso e si ruppe una zampa. L'incidente indusse Vardhamaan alla disperazione. L'affetto che nutriva per il suo bue lo bloccò lì per tre notti.

    Vedendolo così abbattuto, i compagni di viaggio lo avvertirono che la foresta era abitata da tigri e leoni e che rischiava la vita per quel bue: "Non preoccuparti del bue e lascialo qui - dissero - Stai certo che nel giro di qualche giorno guarisce o muore. In ogni caso, tu non puoi farci niente".

    Vardhamaan diede ascolto ai compagni di viaggio, lasciò qualcuno a guardia del bue e riprese il viaggio.

    Dopo un po' gli uomini lasciati di guardia si stancarono di badare a quell'animale ormai diventato inutile; così abbandonarono il povero Sanjeevak e si avviarono per raggiungere Vardhamaan. Gli mentirono dicendo che il bue era morto e che si erano preoccupai di eseguire i riti dovuti. Vardhamaan non fu certo contento della notizia.

    Stando nella foresta, l'erba fresca, l'acqua e l'aria pura ebbero un effetto straordinario su Sanjeevak, che ben presto guarì e riprese le forze. Anzi, era più forte di prima. Muggendo energicamente, Sanjeevak cominciò a sfregare le corna contro un mucchio di sabbia, facendo molto rumore.

    Nella foresta abitava un leone chiamato Pingalak. Un giorno Pingalak andava a spegnere la sete nel fiume Yamuna. Per caso sentì il chiasso che faceva il bue Sanjeevak ed ebbe paura che si trattasse di un animale feroce. Quel rumore lo fece spaventare davvero; così strisciò fra i cespugli fino a un albero di banyan.

    Pingalok, il leone, aveva due sciacalli come ministri e, questi, lo seguivano sempre e ovunque. Si chiamavano Damanak e Kartak. Il comportamento timoroso di Pingalak li sorprese e cominciarono a discutere sul da fare.

    Damanak chiese a Kartak il motivo per cui il leone si nascondeva. Kartak lo mise in guardia dall'immischiarsi nelle faccende del loro re e disse perché mai si sarebbero dovuti preoccupare della cosa. Chi si immischia senza motivo in questioni per lui irrilevanti, disse lo sciacallo, finisce male proprio come capitò alla scimmia che smosse il cuneo.

    Damanak chiese a Kartak di raccontare la storia della scimmia.




    2. Storia della scimmia

    Nei pressi di una città si stava costruendo un tempio. Lì vicino stavano spaccano un enorme tronco d'albero. All'ora di pranzo, i lavoratori lasciavano i cunei nel tronco da spaccare e andavano a mangiare. Una scimmia aveva seguito i lavori fin dalla mattina. Mentre i lavoratori erano lontani, la scimmia scese dall'albero e andò a curiosare su quel tronco. Giocando, vide il cuneo e cominciò a girarlo, senza badare alla coda che si era incuneata nella spaccatura del tronco. Non appena rimosse il cuneo, la spaccatura si rinchiuse sulla coda della scimmia, che cercò invano di liberarsi. Nessuno lì vicino poteva aiutarla; e quando i lavoratori tornarono, la scimmia era già morta.
    Kartak disse che un inferiore che dà consigli a un re senza essere interrogato finisce sempre male. E' per questo che bisogna analizzare la situazione, pensare e solo allora parlare.
    Damanak sostenne che anche l'inferiore diventa superiore quando serve il re. Al contrario, il superiore che non sa guidare il re diventa inferiore.
    Un re si occupa delle persone che gli stanno intorno anche quando sono insipienti, ineducate e ignoranti. E tuttavia i servi che stanno sempre attenti ai motivi e alle ragioni della felicità e della infelicità di un re, vengono facilmente promossi a una posizione più alta a un re ostile. Coloro che pensano che ci voglia una certa fatica e un duro lavoro per compiacere un re sono di fatto degli incauti, sono tardi e stupidi. Se uno può essere capace di addestrare animali come il serpente, il leone o l'elefante usando differenti metodi, non ci vogliono grandi sforzi da parte del saggio per tenere sotto controllo un re.
    Kartak chiese allora a Damanak cosa avesse intenzione di fare.
    "Oggi il nostro re, senza la sua famiglia è impaurito e sgomento. Perciò dobbiamo andare da lui e chiedergli il motivo di questa sua paura."
    Kartak chiese come fa uno a rendersi conto se il re abbia o no paura. E Damanak rispose:
    "Non ci vuole molto a capirlo. E' noto che anche un animale può capire i comandi dati. Con la giusta concentrazione, un cavallo può portare il carico di un elefante e la persona accorta può capire anche le cose non dette. Uno può capire i sentimenti di una persona sulla base di queste cose: allusioni, pensieri, azioni, parole, espressioni degli occhi e del viso. Per questo mi avvicinerò al re impaurito e usando l'intelletto lo tranquillizzerò e mi guadagnerò il posto di ministro".
    Così disse Damanak. Allora Kartak disse:
    "Non sai ancora cosa significa servire, come potrai dunque servire il re ?"
    Damanak ribatté:
    "Conosco bene i principi del servire. Quando ero bambino ho sentito dalle labbra di mio fratello quali siano le pratiche della fede per i santi.
    La gente che non riconosce i meriti individuali non può servire il re, perché è come se arasse un campo improduttivo e non dà nessuna sicurezza di produrre frutti. E' cosa buona servire il re anche quando dovesse perdere ricchezza e potere, poiché così facendo uno vedrà i frutti del suo servizio in futuro. Il saggio non deve mai sperare di ottenere guadagni materiali da un re ignorante in cambio ei propri servigi.
    Coloro che criticano il re devono prima aver criticato se stessi, perché o n on sono adatti a servire o non sono consapevoli dei compiti del servitore. Questi ha da portare il dovuto rispetto alla regina, al principe, alla principessa, al primo ministro, al sacerdote e alle guardie del palazzo reale. Colui che sempre saluta il re, conosce quello che lui vuole o non vuole ed agisce di conseguenza, è amato dal sovrano. Chi sta in prima fila nella battaglia, lo segue in città e aspetta alla porta della camera reale è ugualmente benvoluto dal re."
    Kartak chiese:
    "Che cosa dirai, dunque, appena ti avvicinerai al re ?"
    E Damanak rispose:
    "Quando il re è buono,il seme germoglia e cresce diventando albero e dall'albero nascono molti altri semi Allo stesso modo, un racconto nasce da un altro e cos via. Tuttavia meglio non parlare quando si mette male per lui, perché anche il Signore si sente offeso dai discorsi che spiegano i presagi attorno a lui."
    Con queste parole, Damanak si presentò a Pingalak. Quando il re lo vide arrivare disse alla guardia di farlo passare, poiché Damanak era il figlio del suo primo ministro. Il re leone fu contento di vederlo. Con molto rispetto Damanak disse:
    "Per quanto immotivata possa sembrare la mia visita, ogni inferiore, così come ogni superiore, ha sempre un motivo per fare visita a un re."
    Pingalak disse:
    "Mettiamo da parte questo discorso. Io ti ho accolto bene perché sei il figlio del mio primo ministro. Non so se tu sia capace o incapace, quindi parla apertamente e dimmi cosa desideri."
    Damanak disse che il re non dovrebbe occuparsi di niente a corte:
    "Se vuoi sentire i miei desideri puoi farlo in privato"
    Un segreto di cui si è sentito parlare da sei anni viene facilmente divulgato. Invece, un segreto sentito per quattro anni rimane un segreto. Questo perché un re prudente deve fare in modo che per sei anni non se ne faccia bisbiglio.
    In privato,Damalak chiese a Pingalak:
    "Perché quel giorno ti sei nascosto mentre bevevi al fiume ?"
    Pingalak rispose:
    "Non hai sentito quegli strani rumori? Sembrava che qualche pericoloso animale fosse arrivato nella foresta. Lascerò questa foresta per sempre."
    Damanak allora disse:
    "E' giusto che un re come tu sei si allontani sentendo quel forte rumore. Potrebbe trattarsi del rumore di tamburi o altro. E questa è la ragione per cui non bisogna fare rumore, proprio come Gomayu". Sorpreso Pingalak chiese: "Come?"



    3. Storia di Gomayu, lo sciacallo

    Una volta uno sciacallo di nome Gomayu era molto affamato e vagava nella foresta alla ricerca di cibo. A un certo punto capitò in un campo di battaglia dove due eserciti si stavano affrontando pronti per la guerra. Per caso il ramo di un albero cadde sul tamburo che stava ai piedi del tronco, producendo un sordo rumore. Lo sciacallo si spaventò al punto da temere per la sua vita. Pensò:
    “Ora verrò distrutto. Prima che la creatura che ha provocato quel rumore così sordo mi veda è meglio che me la batta da qui”.
    Un altro pensiero si affacciò nella sua mente, che non era giusto abbandonare la foresta dove avevano vissuto i suoi avi. Così Gomaya decise di scoprire prima che cosa aveva provocato quel rumore. Con molta cautela si avvicinò al tamburo e curiosamente si sentì contento: pensava infatti di aver trovato parecchio cibo, come non gli accadeva da molti giorni, dato che dentro quella pelle doveva esserci molta carne. Così fece un buco nella pelle del tamburo e vi entrò: ma una volta aperto, dentro non c’era nessuna traccia di carne.
    La morale della storia è che senza una conoscenza appropriata, non ci si deve lasciare impressionare da qualcosa solo per averne udito il suono. Un re che non perde il suo coraggio mentre combatte un nemico formidabile non sarà mai sconfitto. Dunque, prima dobbiamo scoprire che cosa ha creato quel suono. Aspetta qui finché non mi sarò informato sul suono che ti ha spaventato.
    Così Damanak palò al leone e si allontanò.
    Pingalak pensò che non fosse buona cosa fidarsi delle parole dello sciacallo. Poteva anche avere l’intenzione di trescare col nemico per detronizzarlo. Così decise di seguirlo e di nascondersi in un punto della foresta per spiare le sue mosse. E così fece. Nel frattempo Damanak entrò nella foresta e si avvicinò al bue Sanjeevak, contento di scoprire che altro non era che un bue. Avendo scoperto così la sorgente dei rumori che avevano spaventato il leone pensò: “Un re in crisi dipende sempre dai suoi ministri. Ecco perché i ministri si augurano sempre e si assicurano che il re stia sempre male”.
    Così pensando Damanak andò dal re, che lo accolse reprimendo la paura:
    “Hai visto la creatura? – chiese il re.
    “Sì, maestà, l’ho vista ed è possibile che abbia visto anche te. Ma la persona forte e superiore non infligge pena al debole ed è forse per questo che non ti ha attaccato.”
    Il vento non strappa l’erba tenera che si piega prima: così un essere superiore di alto pensiero domina la natura umile e mostra la sua forza contro chi è più forte.
    Maestà, è vero che la creatura è forte quanto più ha coraggio e che noi siamo deboli e indifesi. Ma se il re vuole potrò mettere la creatura la suo servizio.”
    Pingalak tirò un respiro di sollievo e chiese: “Davvero è possibile?”
    Damank rispose: “Sì, niente si può fare senza l’aiuto dell’intelligenza”.
    E’ detto anche che sia più facile vincere una guerra con l’aiuto dell’intelligenza più in fretta di quanto non si possa vincerla con la forza fisica.”
    Pingalak rispose: “ Se è così, ti nomino fin d’ora ministro e ti concedo i poteri discrezionali di punire e ricompensare.”
    Dopodiché Damanak avvicinò Sanjeevak e lo impressionò con la potenza degli animali selvatici. Divenne amico del bue e gli promise di presentarlo a Pingalak, il re leone. Lo convinse che era nel suo interesse chiedere perdono al re e mettersi sotto la sua protezione. "Non rovinare stupidamente la tua forza. Io sto per diventare ministro di stato e insieme potremo godere dei vantaggi e dei lussi della corte reale". Così Damanak blandì e convinse il bue.
    Una persona egoista e che non rispetta tutti allo stesso modo cade in disgrazia e perde la sua posizione; come Dantil, per quanto fosse onorato dal re. Chiese Sanjeevak a Damanak:
    “Chi è costui?”
    E Damanak allora gli raccontò la storia di Dantil.


    4. Storia di Dantil

    C’era una volta una città chiamata Vardhaman, dove viveva un ricco uomo d’affari, di nome Dantil, che era il capo della città. Col suo lavoro aveva compiaciuto il re e in occasione del suo matrimonio invitò il re, le regine e i ministri trattandoli tutti con onore. Proprio in quell’occasione sopraggiunse uno spazzino di nome Gorambh che si accomodò sul trono. Era un insulto al re, e lo spazzino fu subito cacciato dai servi di Dantil.
    Sentendosi gravemente insultato lo spazzino non riuscì a dormire per molte notti, meditando vendetta. Cercava sempre il modo di mettere zizzania tra il re e Dantil.
    Un giorno, già in piedi di primo mattino mentre il re si riposava, Gorambh si avvicinò alla finestra della stanza del re e disse a voce alta: “E’ sorprendente quanto sia diventato audace quel Dantil da osare abbracciare la regina”. Il re lo sentì e subito si alzò per chiedere a Gorambh se dicesse il vero.
    “Davvero Dantil ha abbracciato la regina?”
    Gorambh confermò: “Vostra altezza, stavo giocando a carte con un mio amico la notte scorsa, per cui non potevo dormire. Il mio amico fa spesso visita a Dantil e mi ha detto di averlo sentito dire: ‘Mi vanto di avere intimi contatti con la regina’. Non ricordo le parole esatte. Adesso ho molto sonno e non so cosa ho blaterato.”
    Il re pensò che lo spazzino veniva ogni giorno e che anche Dantil fosse un visitatore abituale del palazzo. Per cui era possibile che Gorambh avesse visto la regina abbracciare Dantil. Così disse:
    “Chi ha desideri latenti durante il giorno, li manifesta anche durante il sonno. Le emozioni latenti o i sentimenti di una persona si palesano proprio quando beve o quando sogna. Per cui non si può avere fiducia nelle donne; esse parlano con uno e guardano ad un altro con occhi di desiderio e nel cuore pensano ad un altro ancora. Il fuoco non è mai soddisfatto dalla legna, come gli oceani mai sono soddisfatti dai fiumi. Così le donne non sono soddisfatte di molti uomini.
    Considerando il carattere delle donne, il re se ne adontò e decise di impedire a Dantil l’ingresso a corte. La cosa provocò in Dantil confusione e sorpresa., dato che non riusciva a rendersi conto del motivo di quella decisione. Non aveva commesso nessun crimine che potesse dispiacere al re. Un giorno tentò di recarsi a corte ma fu fermato dalle guardie. Vedendo la cosa, Gorambh rise e disse alle guardie: “Guardie, quest’uomo sarà lui stesso a decidere se essere punito o perdonato. Se lo fermate, ne avrete lo stesso danno che dovesse toccare a lui”.
    Sentendolo parare così, Dantil pensò che Goramgh doveva aver detto qualcosa al re. Così lo invitò a casa sua e gli regalò vestiti e altre cose. Pentito di averlo maltrattato, gli chiese perdono. Gorambh lo perdonò e gli assicurò che il re lo avrebbe accettato di nuovo invitandolo a corte.
    La mattina dopo Gorambh andò a fare le pulizie vicino alla stanza del re e borbottò vicino alla finestra: “Davvero strano che il nostro re mangi cocomeri mentre risponde al richiamo della natura”. Il re sentì e se ne dispiacque. Disse adirato: “Ma cosa diavolo dici. Ringrazia il cielo che sei un servitore di questa casa”.
    Garambh rispose: “Ho giocato tutta la notte e adesso ho molto sonno. Non so cosa vado borbottando. Perdonami, ti prego, non sono in me”
    Immediatamente il re si rese conto che così come lo spazzino aveva sparlato di lui poteva allo stesso modo aver sparlato di Dantil quando non era in sé. E si sentì rassicurato sul fatto che Dantil fosse un galantuomo e non avesse avuto relazioni illecite con la regina. Per cui bisognava riabilitarlo. Subito ordinò ai ministri di invitare a corte Dantil con onore e rispetto. E non appena Dantil lo venne a sapere ne fu felice.

    Sentendo questa storia Sanjeevak disse: “Signore, farò qualsiasi cosa u ti aspetti da me. Portami pure da Pingalak”. Damanak lo condusse dal re e lo introdusse a corte. Ben presto il bue e il leone diventarono amici. Stando in compagnia di Sanjeevak e ascoltando le sue storie, Pingalak smise di usare violenza e uccidere altri animali. Si affezionò a Sanjeevak al punto da non prestare più attenzione a Damanak quando lo accompagnava.
    E’ noto che tutti gli animali carnivori, dipendendo dalla carne, cominciano a soffrire. E come capita i familiari di Damanak lo abbandonarono e se ne andarono altrove. E questo rese infelice Damanak. Kartak prese a compiangerlo: i definitiva era stato lui a far incontrare il bue e il leone trasformando quest’ultimo in un erbivoro e adesso era proprio lui a soffrirne.
    Damanak accettò il rimprovero e disse: “Questo Pingalak ha smesso di cacciare e mangiare carne. I suoi familiari stanno male. Dobbiamo cambiare le abitudini del re. Dal momento che è mal consigliato, tocca a noi, suoi ministri, riportarlo sulla buona strada. Sì, la colpa è mia e non del re. Noi abbiamo perso l’onore a causa dei nostri errori nello stesso modo in cui i tre sciacalli che dovevano pagare per le loro colpe combattono contro due montoni.”
    Kartak chiese: “Di cosa si tratta?”
    E Damanak gli raccontò questa storia.


    5. Storia di Devasharma

    In un posto molto isolato una volta c’era un tempio. Per ragioni sconosciute la gente si era allontanata dal tempio. Un giorno un saggio chiamato Devasharma prese a vivere in quel tempio. Con mezzi leciti e illeciti aveva ammassato una certa ricchezza. Per via del suo sviscerato amore per il denaro non si fidava di nessuno e teneva in casa le sue ricchezze. Spesso si preoccupava di come se ne sarebbe preso cura, per cui diceva: “Guadagnare denaro è triste; triste dover prendersene cura; triste è guadagnalo, triste è spenderlo. Tanto vale rinunciarvi.”
    Qualche tempo dopo un ladro di nome Aashadbhuti venne a sapere la cosa e studiava il modo di rubarla. Travestito da eremita andò da Devasharma e disse: “Questo mondo è senza senso, la giovinezza è come un fiume che scorre dalla montagna, la vita è come il fuoco, la brama e il desiderio sono come le nuvole autunnali, gli amici, i figli, la moglie e tutto il resto sono poco più di un sogno. Tutto questo ho capito ma non so se sono in grado di cancellare questo mondo”.
    Devasharma si rivolse rispettosamente al Sanyasi:
    “Fgliolo, che tu sia benedetto. Il tuo distacco ha reso facile la tua vita. Sono convinto che chi è calmo e distaccato fin dall’inizio sarà così fino alla fine. Comincia a recitare il mantra: Aum Namaha Shivaay”.
    Aashadbhuti accettò Devasharma come guru. Ma quest’ultimo continuava a sospettare di lui e non gli permetteva di entrare nel tempio di notte. Aashadbhuti aveva cominciato con l’obbedirgli senza discutere, ma non poteva realizzare il suo piano. Per cui cominciò a pensare come ucciderlo, se tagliagli la gola, strangolarlo o avvelenarlo.
    Un giorno Devasharma fu invitato a una cerimonia in un villaggio vicino e ci andò acompagnato da Aashadbhuti. Lungo il camino ebbe voglia di farsi un bagno nel fiume e compiere il suo rito quotidiano. Prese la borsa in cui aveva messo il suo denaro e si avvicinò alla riva, raccomandando all’altro di custodirla: “Prenditi cura di Bhagavan Yogeshwara finché non sarò tornato dal bagno”.
    Ma non appena si fu allontanato, i ladro afferrò i soldi e scomparve.
    Tornando, Devashama si imbatté in due montoni che lottavano fra di loro. Uno dei due morì nella lotta e uno sciacallo prese a leccare il sangue che gli usciva dal collo. Un’idea attraversò la mente di Devasharma: “Questo sciacallo è così folle da avvicinarsi ai montoni distrutti dalla morte”.
    Pensando a questo tornò nel luogo dove aveva lasciato il suo denaro in custodia di Aashadbhuti; ma questi non c’era. Vedendosi così subdolamente derubato, Devasharma si sentì avvilito. Cominciò a seguire le tracce lasciate dal ladro e continuando a camminare raggiunse verso sera il villaggio vicino.
    Nel villaggio, un tessitore stava andando con sua moglie a bere succo di palma e chiese a Devasharma di accettare la sua ospitalità, cosa che lui accettò. Il tessitore disse alla moglie di accompagnarlo a casa e andò a prendersi il suo vino di palma. Ma la moglie del tessitore era una donna licenziosa. Così cominciò ad amoreggiare con Devasharma già mentre lo accompagnava a casa sua. Qui giunti lo fece accomodare su una lettiera di legno e cominciò ad agghindarsi. Quando il marito tornò era sul punto di sedurlo. Vedendolo tornare si disfò in un attimo dei suoi ornamenti e riprese il suo aspetto abituale. Ma il marito si era accorto del suo armeggiare con Devasharma. Così la picchiò brutalmente e l’appese a un gancio. Essendo ubriaco e stanco cadde nel sonno. In quel momento arrivò un’amica della moglie e vedendolo addormentato le disse che Devasharma la stava aspettando là fuori. La moglie disse che era ancora appesa e non poteva uscire. Allora l’amica le disse: “Felice chi può godersi i piaceri nella sua giovinezza”.
    La moglie del tessitore si liberò dalla corda e legò l’amica al suo posto. Quindi andò ad incontrare Devasharma. Nel frattempo il tessitore si svegliò e cominciò a urlare alla moglie:
    “Giura di non andare da nessuna parte e di non avere rapporti con nessun altro uomo o ti taglio il naso”. Ma l’amica non diceva una parola. E in un empito di rabbia tagliò il naso alla donna che aveva scambiato per sua moglie. Dopodiché si riaddormentò. Senza rendersi conto, per via del buio, se avesse tagliato il naso della moglie o di qualcun’altro.
    Quando la moglie tornò vide in che stato era l’amica e se ne dispiacque. La liberò dal gancio e vi si appese a sua volta. Dopo un po’ il tessitore si svegliò e ricominciò a gridare: “Dimmi, vuoi ancora andare in giro o dovrò tagliarti anche le orecchie?”
    A quel punto anche la moglie cominciò a piangere: “Signore, se fossi rimasta fedele a mio marito, avrei avuto il naso tagliato. Anche se non ho avuto relazioni sessuali con nessun altro, possa il mio naso tornare come prima. Signore misericordioso, salvami.” Quindi disse al marito: “Guardami, non sono licenziosa, vedi che il mio naso è tornato come prima?”.
    Il marito fu colto di sorpresa e dovette ammettere che la moglie gli era fedele. La liberò e chiese perdono. Vedendo tutto questo Devasharma disse:
    “Uno non deve essere troppo attaccato alle donne, non deve sfidarle poiché cercano di sedurre l’uomo attaccato nello stesso modo in cui la gente si prende gioco e tormenta un corvo al quale sono state tagliate le ali.”
    In questi pensieri Devasharma trascorse l’intera notte. Da un’altra parte, la moglie del barbiere, alla quale era stato tagliato il naso cercava di nascondere il volto sfigurato. Finché il marito, che era andato al palazzo reale, non tornò e chiese alla moglie la scatola dei rasoi. Era talmente stanco che non voleva entrare in casa. La moglie prese un rasoio dalla scatola e lo porse al marito. Il marito che voleva l’intera scatola si arrabbiò e scagliò il rasoio contro la moglie. La moglie non aspettava altro, e cominciò a gridare: “Aiuto! Questo scellerato mi ha tagliato il naso senza motivo.”
    Sentendo le sue grida la gente comincia ad accorrere. Arriva anche una guardia che dà la barbiere una bella bastonata. Dopodiché entrambi vengono trascinati alla corte. Il barbiere non sapeva come difendersi. Basandosi sul suo silenzio, il giudice ordinò che venisse impiccato. E proprio mentre stava per salire sul patibolo arrivò Devasharma e riferì alla polizia come erano andate veramente le cose, a partire dalla lotta fra i montoni fino alla storia della donna licenziosa e all’incidente accaduto quella notte. Così il barbiere ebbe salva la vita e anche alla vera colpevole, cioè sua moglie, venne data una lieve punizione. Devasharma se ne tornò alla sua dimora, dimenticandosi completamente elle ricchezze perdute.

    Alla fine del racconto, Kartak disse: “Proprio come quei tre furono infangati dalle loro macchie, anch'io sono stato colpito dal mio stesso errore"
    Kartak chiese a Damanak che cosa dovesse fare. E Damanak rispose:
    Anche in questa ora oscura, cercherò di separare Sanjeevak dal mio signore usando l’intelligenza.”
    Kartak lo mise in guardia: se uno ei due, Sanjeevak o Pingalak, fosse venuto a conoscenza della cospirazione gli sarebbe caduto il cielo addosso. Ma Damanak lo rassicurò dicendogli che ninete di male gli sarebbe accaduto. “Un uomo non deve perdersi d’animo nelle avversità. Talvolta un uomo la cui volontà è ferma riesce a fondare un grande impero”.
    Alla fine Damanak disse: “Anche Brahma non può sapere dell’ipocrisia ben gestita, proprio come il tessitore che fece l’amore con una principessa travestendosi come il Signore Vishnu.”
    Incuriosito, Kartak chiese: “Che storia è ?” E Damanak gliela raccontò.




    6. Storia di Kaulik e della principessa.

    In una città vivevano due amici. Uno faceva il tessitore, l’altro il falegname. Nella città una volta fu organizzato un festival al quale partecipò gente venuta da lontano e da ogni parte. I due amici vollero partecipare al festival e videro una principessa che cavalcava un elefante scortata da due eunuchi. Il tessitore fu così infatuato dall’incomparabile bellezza della principessa che ne fu immediatamente innamorato. Il suo amico lo riportò a casa e chiamò un dottore. Il tessitore, continuando a girare intorno, disse al falegname che se la principessa non lo avrebbe abbracciato sarebbe morto. “La scia che muoia – disse all’amico – dal momento che so di non poterla sposare e non desidero nient’altro.”
    Il falegname cercava di consolarlo: “Stai tranquillo e abbi pazienza, sicuramente avrai questa principessa.”
    La cosa lasciò perplesso il tessitore, il quale chiese come la cosa potesse accadere.
    L’amico allora scolpì un Garuda (un serpente alato) in legno di Shorea. Scolpì anche due armi, una conchiglia, un fiore di loto, un disco e una mazza dello stesso legno e li consegnò al tessitore. Gli insegnò anche come far volare il Garuda di legno.
    Il tessitore prese le sembianze del Signore Vishnu, cavalcò il Garuda e volò al palazzo dove viveva la principessa. La trovò che dormiva e le disse: “Principessa, stai dormendo o sei sveglia? Sono venuto per invitarti ad andare da Laxmi, a Ksheersagar. Voglio sposarmi con te, perciò ti prego accettami come tuo marito.”
    La principessa fu stupita nel vedere l’apparenza del Signore Vishnu. Si svegliò dal sonno e disse:
    “Come possiamo avere una relazione? Io sono un essere umano, mentre tu sei il Signore dei tre mondi!”
    Il tessitore la convinse che lei era in realtà Radha – che era nata a Gokul.
    “Tu sei quella stessa Radha mia moglie e sei nata come principessa in questa vita, ecco perchè sono venuto qui” – disse.
    La principessa a quel punto gli disse di chiedere il permesso a suo padre, ma il falegname non lo voleva incontrare. E cominciò a tirar fuori scuse.
    “Io sono invisibile. I mortali non possono vedermi, tanto meno posso parlare con tuo padre. Devi sapere che una volta ho maledetto tuo padre condannando lui e l’intero suo clan alla distruzione.”
    Il tessitore prese per mano la principessa terrorizzata, la gettò con forza sul letto e soddisfò la sua lussuria. Di prima mattina se ne tornò tranquillamente a casa.
    La cosa andò avanti per molte notti e il tessitore era contento di poter soddisfare ininterrottamente le sue brame. Gli eunuchi che facevano la guardia alla principessa furono stupiti di notare in lei significativi cambiamenti e sospettarono che la sua verginità non fosse più intatta.
    “Che cosa sarà mai successo? – si meravigliavano – Chi è il responsabile? E come ha potuto attentare alla sua verginità superando misure di sicurezza così rigorose?”
    Decisero perciò di informare il re sugli sviluppi della situazione. Quando il re seppe dei cambiamenti di sua figlia, si rattristò e se ne preoccupò molto. Si consultò con la regina e la incaricò di indagare sulla faccenda. La regina andò dalla principessa e si arrabbiò molto quando vide sul suo corpo i graffi e tutti i segni inconfondibili delle sue pratiche amorose. Ma quando la principessa le raccontò l’intera storia fu molto contenta che sua figlia avesse la fortuna di amoreggiare col Signore Vishnu. Così tornò dal re e disse:
    “Sei diventato il suocero di Vishnu. Nostra figlia ha celebrato il nodo nuziale con Lui. Se non mi credi, potrai vederLo stanotte.”
    Anche il re fu molto contento della cosa e si considerò un uomo davvero fortunato.
    “Mia regina – disse – davvero è una benedizione che il Signore Vishnu sia diventato nostro genero. Con le Sue benedizioni soggiogherò tutti gli altri re.”
    Aspettò che arrivasse la notte per poter vedere il genero. Quando la notte venne, guardarono entrambi dalla finestra. Ed entrambi si convinsero, dopo aver visto Kaulik il tessitore travestito da Vishnu.
    Da quel momento il re cominciò a inimicarsi tutti gli stati vicini, convinto com’era che finché avrebbe avuto Vishnu dalla sua parte nessuno potesse combatterlo. Chiese anzi alla figlia di avere rassicurazioni in proposito. Presto i nemici attaccarono il suo regno da tutti i lati e in poco tempo sconfissero il re. La figlia chiese al Signore Vishnu di salvare suo padre. Ma Kaulik le diede solo vaghe rassicurazioni. Infine, quando al re era rimasta solo una fortezza, Kaulik il tessitore fu costretto a correre in suo aiuto. Temeva che se il re avesse perso quell’ultima fortezza tutta la fede che nutriva verso di lui sarebbe svanita e non sarebbe più stato possibile incontrare la principessa.
    Il tessitore architettò di farsi vedere mentre si elevava in cielo. Salì sul suo Garuda di legno con tutte le sue armi: “Forse i nemici saranno terrorizzati dopo avermi visto” - pensò.
    Continuando la storia, Damanak disse:
    “Così Kaulik montò sul suo Garuda di legno e volò nel cielo per combattere a fianco del re. A quel punto, il Signore Vishnu disse a Garuda: - Garuda! Questo Kaulik se la sta proprio cercando, la morte. Dobbiamo salvarlo, altrimenti la gente non avrà più fede in me. Se verrà ucciso, la gente penserà che io stesso sia stato ucciso e finirà di adorarmi.
    Così disse a Garuda di immergere la sua divina apparenza nel Garuda di legno, mentre Lui stesso sarebbe entrato nel corpo di Kaulik.
    Conclusa la battaglia, Kaulik discese vittorioso sulla terra. A quel punto si presentò al re e rivelò la sua vera identità. Il re vittorioso, nella sua grande felicità, gli diede in sposa la figlia e gli regalò il regno.
    Finita la storia Damanak disse:
    “Un uomo laborioso può conquistare ogni cosa e niente è al di là della sua portata.”
    Kartak gradì la storia ma in seguito dubitò che l’intelligenza di Damanak riuscisse a creare incomprensione tra Pingalak e Sanjeevak. Damanak era invece sicuro della sua abilità. Disse infatti: “Il compito portato avanti con mezzi appropriati non ha bisogno di particolare valore. Proprio come il corvo uccise il cobra nero con l’aiuto di una catena d’oro.”
    Kartak chiese a Damanak di raccontargli questa storia.



    7. Il corvo e il cobra

    C’era un enorme albero di Banyan in un posto e una coppia di covi che vivevano sull’albero. Qualche tempo dopo anche un cobra nero prese a vivere nella cavità che stava alla base del tronco del Banyan. Il cobra si mangiava le uova che deponeva la femmina del corvo. E questo rattristava parecchio i corvi. Allora il corvo andò con sua moglie dal suo amico sciacallo e gli raccontò i suoi guai. E ascoltò anche i suoi consigli su come porre fine alla minaccia del cobra.
    Lo sciacallo gli raccontò la storia della gru ingorda che si mangiava tutti i pesci di uno stagno. E proprio per la sua eccessiva ingordigia alla fine la gru fu uccisa da un granchio.
    Allora i due corvi furono curiosi di sapere come aveva fatto il granchio a uccidere la gru.
    E lo sciacallo raccontò loro la storia seguente.


    8. La gru e il granchio

    In una foresta c’era un lago. Molti animali andavano sulla riva del lago a bere acqua. Viveva lì anche una gru ma per via dell’età non era più capace di cacciare le sue prede. Una volta la gru aveva fame davvero e se ne stava lì a piangere sulla riva. Vedendola piangere un granchio le chiese perché piangeva. E tristemente la gru rispose:
    “Figliolo, ho intrapreso la vita ascetica per scontare i miei peccati, accumulati nel divorare i pesci di questo lago. Adesso ho fatto voto di porre fine alla mia vita digiunando fino alla morte.. E’ questo il motivo per cui non posso cacciare i pesci anche quando ne avrei l’opportunità.”
    Il granchio chiese quale fosse la ragione del suo ascetismo.
    La gru spiegò quanto fosse attaccata a quel lago e alle creature che ci vivevano.
    “Ci sono cresciuta, vicino a questo lago. E ho giocato con le creature che ci vivono. Ma a un certo punto ho saputo dagli astrologi che nei successivi dodici anni non ci sarebbe più stata pioggia. Se questo fosse successo davvero il lago sarebbe seccato e questo assillo mi ha indotto all’ascetismo, dato che non sopporto di vedere gli altri soffrire. Così ho deciso di porre fine alla mia vita”
    Quando i pesci sentirono raccontare quella storia alla gru nuotarono verso la riva e appena seppero della previsione degli astrologi furono attanagliati dalla paura. Così chiesero alla ru come poter scampare al pericolo imminente.
    Disse allora la gru:
    “A breve distanza dal lago, c’è una grane riserva d’acqua; c’è tanta acqua che non potrà prosciugarsi anche se dovesse piovere per ventiquattro anni. Così tutte le creature che vivevano nei laghi vicini vanno verso la riserva. Perché non ci andate anche voi?”
    Tutti i pesci dissero che non erano in grado di raggiungere la riserva. Allora la gru prese col becco un pesce e lo portò in un anolino isolato, lo sbatté contro una roccia e lo uccise prima di mangiarselo. Uno dopo l’altro, la gru prese i pesci dal lago e mangiò a sazietà. La cosa andò avanti per diversi giorni.
    Un giorno il granchio disse alla gru: “Ma sei davvero crudele! Sono stato il primo a trattare con te questo argomento serio, ma finora non mi hai prestato alcuna attenzione. Oggi dovrai aiutarmi a raggiungere la riserva d’acqua”.
    In effetti la gru era stanca del solito sapore di pesce e gli venne voglia di granchio, per cui fu felice della richiesta. Si sarebbe rifatto il palato. Prese il granchio nel becco e si diresse verso la roccia.
    Non appena il granchio vide le spine di pesce sparse attorno alla roccia diventò sospettoso, ma senza mostrare la sua paura chiese: “Ma a che gioco giocavi coi pesci?”
    Il granchio decise di non stare al gioco. Piantò le sue ganasce sul becco della gru e gli staccò la testa. La gru morì da egoista. Il granchio avanzò lentamente fino allo stagno e informò tutti i pesci rimasti della menzogna che la gru aveva raccontato.

    A quel punto – o forse dopo un’altra storia – lo sciacallo suggerì ai corvi un piano per liberarsi del serpente. Suggerì ai corvi di andare a prendere nel palazzo del re un oggetto prezioso e di metterlo nella tana del serpente. I corvi volarono al palazzo e presero una collana della regina mentre faceva il bagno. Subito le guardie li inseguirono, ma i corvi fecero in tempo a buttare la collana nella tana ai piedi dell’albero. Così le guardie trovarono il serpente che faceva la guardia alla collana. Linciarono il serpente e si ripresero la collana.
    I due corvi erano finalmente contenti che le loro uova fossero in salvo.

    La storia successiva che Damanak racconta a Kartak è quella del leone scemo e della lepre intelligente.


    9. Il leone scemo e la lepre furba

    Nella foresta viveva un tempo un feroce leone, di nome Bhasurak. Era un leone ingordo che andava in giro per la foresta ad uccidere animali indiscriminatamente. A un certo punto gli animali si riunirono e decisero di fare al leone una proposta: un animale di ogni specie, ogni giorno, si sarebbe offerto volontariamente per essere mangiato. Il leone accettò ma li avvertì che il giorno in cui nessun animale si fosse presentato li avrebbe uccisi tutti. Ogni giorno veniva il turno di un animale, finché toccò a una piccola lepre che era terrorizzata dall’idea della morte imminente.
    Camminava lentamente a passi pesanti. Lungo la strada vide un pozzo: si affacciò al pozzo e vide la sua immagine riflessa nell’acqua. Un ‘idea gli balenò nella mente. Programmò di incontrare il leone verso sera, molto tardi.
    Quando Bhasurak vide la lepre le chiese furioso: "Perché sei così in ritardo?"
    La lepre inventò una storia.
    “Signore, poiché sono un animale molto piccolo, ho pensato che mangiare me non sarebbe bastato a soddisfare la tua fame. Così mi sono fatta accompagnare da altre quattro lepri. Eravamo tutte orgogliose di offrire la nostra vita per servirti, ma lungo la strada abbiamo incontrato un leone che affermava di essere lui il re della foresta. Quando gli abbiamo detto che stavamo facendo tardi perché dovevamo venire da te, ha cominciato ad insultarti. E soltanto dopo mie ripetute richieste mi ha autorizzato a venire qui per dirti che tu devi accettare la sua supremazia.”
    A quel punto Bhasurak si infuriò e chiese dove fosse l’impudente.
    La lepre lo condusse al pozzo e gli disse che lo sfidante viveva lì dentro.
    Il leone si affacciò al pozzo e vide il suo riflesso nell’acqua. Scambiandolo per l’altro leone, ruggì forte. Il ruggito echeggiò da dentro il pozzo e lui pensò che l’altro stesse replicando al suo ruggito. Fu tanta la sua rabbia che saltò nel pozzo e non ne riemerse mai più.
    Così ciò che viene fatto servendosi dell’intelligenza è sicuramente più fruttuoso di ciò che viene fatto soltanto con la forza.

    “Ti assicuro – disse a quel punto Damanak – che riuscirò a creare una frizione fra il bue e il leone.
    A quel punto Kartak gli disse di andare e gli augurò buona fortuna.
    Damanak raggiunse il posto dove Pingalak era da solo, lontano da Sanjeevak e si avvicinò a lui con aria tranquilla. Pingalak gli chiese dov’era stato tutto quel tempo e lui rispose di non averlo cercato poiché non aveva niente da proporgli, tuttavia la prospettiva che lui abbandonasse il suo regno lo aveva spinto ad accorrere.
    Pingalak non riusciva a capire cosa volesse dire esattamente Damanak, per cui gli chiese di essere più chiaro. Damanak disse:
    “Mio signore, Sanjeevak è geloso di te. Mi ha rivelato l’intenzione di ucciderti. Vuol essere lui il re e mi ha anche offerto il posto di ministro.
    Pingalak fu dispiaciuto di sentire quel che gli diceva lo sciacallo, ma non si fidava del tutto delle sue parole. Damanak cercava di convincerlo dell’autenticità dei suoi discorsi, ma Pingalak gli disse: “Anche se Sanjeevak prova inimicizia nei miei confronti, mi rifiuto di scendere al suo livello.”
    Sentendolo comunque influenzato dal suo discorso Damanak gli disse:
    “Non è buona cosa perdonare il nemico, maestà. Inoltre tu non sei vegetariano. Come puoi nutrire una lunga amicizia per un vegetariano? Non solo Sanjeevak ha distrutto le tue qualità ma ti ha deviato dal retto sentiero. Dovresti comportarti proprio nel modo in cui si comporta l’acqua. Una goccia d’acqua evapora se cade sul ferro rovente, ma la stessa acqua splende come una perla se si poggia sulla foglia di loto o sul filo d’erba. La stessa acqua si trasforma in perla se si posa su una conchiglia quando splende la costellazione di Swati. E’ stato detto giustamente, che una persona si riconosce in base a coloro che frequenta.. Ma si dice anche che uno non deve mai affidarsi a una persona di cui non conosce la natura. Così è successo al pidocchio che fu ucciso per colpa di un acaro.”
    Incuriosito Pingalak chiese: “Come è successo?”
    E Damanak gli raccontò la storia dell’acaro e del pidocchio.




    10. Il pidocchio e la zecca

    C’era una volta un pidocchio chiamato Mandavisarpini, che stava sul lenzuolo del letto di un re. Se la passava bene succhiando il sangue del re. Un giorno arrivò nel letto reale una zecca di nome Agnimukhtha e Mandavisarpani tristemente gli chiese: “Perché mai vieni a vivere in un posto fatto esclusivamente per me? Vattene via prima che qualcuno ti veda.”
    La zecca rispose: “Non è bello cacciare via uno che arriva a casa tua come ospite; è anzi dovere dell’ospitante fornirgli un comodo alloggio. A parte questo, io ho già assaggiato il sangue di uomini di ogni strato, tranne quello di re. Il sangue della gente comune sa di acido, di aspro o di amaro. Invece quello di re deve essere dolce. Per cui ti sarò molto obbligato se mi permetterai di assaggiare il dolce sangue del re. C’è anche da dire che ogni cosa si fa solo per lo stimolo della fame. L’ospite ti chiede del cibo. Non sarebbe bello da parte tua gustare da solo il sangue dolce del re.”
    Mandavisarpini consentì, ma lo avvertì: “ Fa attenzione, zecca. Io succhio il sangue del re solo quando lui dorme. Vedi di fare lo stesso”
    Agnimuktha fu d’accordo. Nel frattempo arrivò il re e si sdraiò sul letto.
    La zecca impaziente voleva subito assaggiare il suo sangue, senza aspettare che il re si addormentasse, e cominciò a morderlo quando era ancora sveglio.
    Morso dalla zecca il re avvertì il dolore; chiamò i suoi attendenti e ordinò loro di cercare dove si nascondeva il pidocchio o la zecca che lo aveva morsicato. All’inizio della ricerca la furba zecca si nascose in fretta tra le fessure della lettiera, mentre il povero pidocchio indolente fu catturato mentre cercava di nascondersi fra le pieghe del lenzuolo. E gli attendenti del re lo schiacciarono.

    Finito il racconto Damanak disse a Pingalak:
    “Mio signore, meglio tenere a distanza Sanjeevak. E’ detto che una persona che diventa intima di un poco di buono, dopo aver abbandonato gli amici più cari e i parenti, va certo incontro alla morte. Proprio così fu ucciso il re Kakuddroom.
    E Pingalak chiese ancora: “Com’è successo?”
    Per cui Damanak dovette raccontargli la storia.


    11. Re Kakkudroom lo sciacallo.

    In una foresta viveva un tempo uno sciacallo chiamato Chandarav. Sentendo fame, una volta si spinse verso la città. Quando i cani lo videro cominciarono a dargli la caccia abbaiando ferocemente. Per salvarsi lo sciacallo entrò nella casa di un tintore e cadde in un vaso di terracotta pieno di una tintura viola. Quando i cani se ne andarono, lo sciacallo venne fuori dal vaso, ma non era più lo stesso sciacallo: era diventato di colore blu.
    Si avviò verso la foresta e tutti gli animali, terrorizzati dal vedere un simile animale, cominciarono a correre da tutte le parti. Lo sciacallo ne fu contento e gridò:
    “Ascoltate! Brahma mi ha mandato per regnare su di voi, poiché questa foresta non ha ancora un re. Sono io da oggi il vostro re e vi assicuro che regnerò con giustizia. Quindi non abbiate paura di me. Il mio nome è Kakkudroom. “
    Gli animali si radunarono attorno e si sottomisero al suo servizio. Lo sciacallo nominò il leone suo ministro e la tigre, anche al leopardo, alla tigre e alla volpe furono affidati degli incarichi. A quel punto gli altri sciacalli furono allontanati dalla foresta. Così lui poteva governare incontrastato. Tutti gli animali, incluso il leone, erano adesso al suo servizio. Ma un giorno li sciacalli scacciati iniziarono a ululare in gruppo. Kakkudroom li sentì e non riuscendo a controllarsi cominciò anche lui d ululare con loro. Quando il leone e gli altri animali lo sentirono ululare a quel modo, capirono quale fosse la sua vera identità e che egli era soltanto un comune sciacallo. Si vergognarono di essere stati presi in giro così a lungo e uccisero l’impostore.
    La morale della storia è che chi abbandona i suoi congiunti, viene ucciso proprio come lo sciacallo.
    Dopo aver raccontato questa storia, ormai sicuro che Pingalak era cauto nella trappola, Damanak andò a trovare Saanjeevak, lo salutò e sedette silenzioso, con la faccia scura. Vedendolo così preoccupato Sanjeevak gli chiese se aveva dei problemi. Damank rispose: “Come si può star bene nella condizione di servo, visto che la ricchezza di colui che è servo del re è controllata da altri. Non solo vive inquieto, ma anche incerto della propria incolumità.”
    Sanjjevak non capiva e gli chiese di spiegarsi meglio. Vedendo che il ferro era caldo Damanak disse: “Pingalak nasconde le sue cattive intenzioni verso di te. Ha detto che ti avrebbe ucciso domani mattina; ho cercato di dissuaderlo ma lui sostiene che la vostra amicizia è innaturale, dato che egli è un carnivoro e tu sei un erbivoro. L’ho trovato così determinato che ho deciso di informarti.”
    Sanjeevak fu così scosso dalle sue parole che svenne. Quando si riprese disse a Damanak:
    “E’ stato un errore fare amicizia con Pingalak, per quanto abbia cercato di fargli capire il mio punto di vista lui non capirà mai. Conosco la ragione della sua ira: e geloso del favore mostrato dal mio padrone, qualcuno ha avvelenato la mente di Pingalak. Le persone furbe fanno il loro lavoro senza curarsi dei mezzi che usano. Non importa loro che il mezzo sia giusto o ingiusto, proprio come il corvo e altri animali fecero con il cammello.
    Damanak, incuriosito, chiese: “Cos’è successo al cammello?”
    Sanjeevak gli narrò la storia.


    12. Kathanak il cammello.

    C’era una volta un leone in una foresta. Il suo nome era Madoktar. Un corvo, un leopardo e uno sciacallo erano sui seguaci. Una volta il leone vide un cammello che si era perso nella foresta. Il cammello si chiamava Kathanak. Quando lo vide il leone si stupì perché non aveva mai visto un cammello in vita sua. Disse: “Guardatelo. Scoprite se è un animale selvaggio o se appartiene al villaggio.” Disse il corvo: “Quell’animale appartiene a un villaggio. E’ un cammello e si può mangiare. Quindi devi ucciderlo.”
    Ma il leone rifiutò di uccidere il cammello e gli disse: “Sarebbe ingiusto uccidere questo cammello, poiché è venuto alla mia dimora e dunque è mio ospite.”
    Il leone diede istruzioni al corvo, al leopardo e allo sciacallo di portare il cammello da lui con tutti gli onori, dicendogli che avrebbe voluto sapere come mai si fosse smarrito nella foresta.
    Quando il cammello arrivò glielo chiese lui stesso e il cammello rispose che era scappato perché il padrone lo torturava. Il leone provò pietà per lui e gli chiese di vivere nella sua foresta senza paura. Da allora il cammello iniziò a vivere nella foresta. Una volta il leone combatté contro un elefante e venne gravemente ferito dalle sue zanne, per cui non era più in grado di cacciare. Persino il corvo, il leopardo e lo sciacallo si ritrovarono affamati, perché erano soliti mangiare i resti degli animali uccisi dal leone. Quest’ultimo ebbe pietà e disse loro di trovargli un animale che potesse uccidere anche se ferito. Il corvo e lo sciacallo si aggirarono nella foresta ma non riuscirono a trovarlo.
    Per cui pensarono entrambi che bisognava uccidere il cammello.
    “Ma il nostro padrone gli ha garantito l’impunità; quindi come possiamo ucciderlo?” disse il corvo.
    Andarono quindi dal leone per chiedergli il permesso di uccidere il cammello.
    “Non troviamo nessun animale adatto e stiamo morendo di fame! E anche tu sembri nelle stesse condizioni. Ti chiediamo perciò il permesso di uccidere Kathanak per soddisfare la nostra fame.”
    Il leone si arrabbiò molto: “Vergognatevi! – disse – non sapete che gli ho garantito l’impunità? Se mi dite ancora una cosa del genere vi uccido! Mai mi macchierò della colpa di uccidere un mio ospite.”
    Disse allora lo sciacallo: “Signore, sarebbe certo una colpa se lo uccidessi, ma non lo sarebbe se Kathanak volontariamente si sacrificasse per salvarti dalla fame. Se non è possibile potrai uccidere chiunque di noi per soddisfare la tua fame. Poiché se tu muori di fame, prima o poi toccherà anche a noi la stessa sorte.”
    Il leone disse: “Fate come volete”
    Seguendo il suo piano lo sciacallo disse agli amici lì riuniti: “l condizioni del nostro padrone vanno peggiorando. In questo modo morirà di fame e chi ci proteggerà a quel punto? Facciamo un sacrificio per salvarlo, così che egli possa sopravvivere e tutti noi saremo liberi dai debiti di riconoscenza nei suoi confronti.”
    Detto questo lo sciacallo sedette davanti al leone con gli occhi pieni di lacrime.
    Il corvo ne fu molto impressionato e non voleva sentirsi di meno. Così disse:
    “O signore, salva la tua vita divorandomi, cosicché anch’io possa salvarmi.”
    Disse allora lo sciacallo: “Come potrebbe il nostro padrone e signore soddisfarsi divorandoti. Sei così piccolo! Inoltre le scritture dicono che mangiare la carne di un corvo è un peccato grave. Esprimendo i tuoi sentimenti ti sei già liberato dal tuo debito verso di lui, adesso spostati e lascia che il nostro signore si salvi mangiando me, così io potrò conquistare i due mondi.”
    Il leopardo, che stava a sentire, disse: “ Signore, divora me, che possa così raggiungere il cielo.”
    Kathanak, che non sapeva niente del piano dello sciacallo, cadde nella trappola. Pensò che il leone non avrebbe ucciso nessuno, per quanto tutti si offrissero di morire. Così anche lui decise di compiacere il leone con parole adulatrici e disse:
    “O leopardo, come può il nostro padrone ucciderti. Tu appartieni alla stessa specie. Lascia che io gli chieda la stessa cosa.” E rivolgendosi al leone disse:
    “Signore, tutti questi animali non sono cibo adatto per te, dunque salvati uccidendo me, così che io possa raggiungere entrambi i mondi.”
    Kathanak aveva appena finito di parlare che lo sciacallo e il leopardo lo dilaniarono.

    Finita questa storia, Sanjeevak disse: “Non andrò altrove, anche se il mio signore è adirato con me, perché chi ha potere ha anche ampio dominio e può raggiungere i nemici ovunque cerchino scampo. Così non mi resta altra scelta che combatterlo apertamente.”
    Quando Damanak lo sentì palare così si preoccupò che se Sanjeevak avesse recato danno a Pingalak con le sue corna aguzze sarebbe stata una brutta cosa. Damanak voleva solo evitar di andarsene ma voleva anche evitare la lotta. Per cui disse: “Amico, la lotta tra padrone e servo è insensata. C si deve proteggere dal nemico potente, altrimenti si farà la fine della pavoncella che nella sua arroganza fu distrutta dal mare.”
    Incuriosito, Sanjeevak chiese che gli raccontasse la storia della pavoncella e del mare.


    13. La pavoncella e il mare

    Una pavoncella viveva con il suo compagno vicino al mare. Era incinta e stava per dare alla luce le uova, per cui chiese al compagno di trovare un posto sicuro ove posare le uova.
    Il compagno le suggerì di posare le uova sulla riva del mare. Ma lei non era molto convinta e disse: “L riva del madre non mi sembra un posto sicuro, dato che quando è luna piena le ondate potrebbero sommergere un elefante. Vi di cercare un posto più sicuro.”
    L’altro rise i gusto e disse con una certa arroganza: “Il mare non potrà mai distruggere la mia progenie. C’è forse qualcuno che entra volontariamente nel fuoco? O qualcuno che va a svegliare un leone addormentato? Qualcuno è capace di sfidare il signore della morte? Lascia lì le tue uova e non aver paura.”
    Il mare aveva ascoltato qull’arrogante discorso e decise di dare una lezione al temerario.
    Dopo ave deposto le uova la pavoncella andò a cercare un po’ di cibo. E il mare con un’ondata travolse le uova. Quando la pavoncella, tornando, non le vide più se ne rattristò.
    “Ti avevo ben avvertito – disse al compagno – ed ecco che le mie parole si rivelano esatte. Ha detto qualcuno che chi non ascolta le persone care sarà distrutto come la tartaruga.”
    Le sue parole incuriosirono il compagno che chiese: “Cos’è accaduto alla tartaruga?”
    E la pavoncella dovette raccontargli la storia.


    14. I cigni e la tartaruga

    In un lago viveva una tartaruga di nome Kambugreeva. I suoi amici cigni vivevano anch’essi nello stesso lago: si chiamavano Sankat e Vikat. Entrambi erano soliti raccontare alla tartaruga storie di saggi.
    Una volta cessò di piovere per parecchi mesi e il livello del lago cominciava ad abbassarsi. Allora i cigni dissero alla tartaruga:
    “Amica, mi sa che nel lago resterà solo fango. Come farai a sopravvivere?”
    L tartaruga rivelò ai due cigni il suo piano: “Prendete una corda o un’asta di legno. Voi due volerete tenendo le estremità nel becco ed io afferrandola con la bocca starò nel mezzo. Così mi porterete in un lago pieno d’acqua.”
    I cigni accettarono ma le raccomandarono di non aprire la bocca per non cadere.
    La tartaruga li rassicurò e i cigni fecero come aveva detto. Mentre volavano su una città la gente che stava in basso vide la strana scena e cominciò a gridare.
    "Guarda un po' ! Divertente!"
    La tartaruga li sentì e si incuriosì: “Cos’è tutto quel chiasso, là sotto?”
    Ma come aprì la bocca cadde giù. La gente la prese e la uccise.

    Finita la storia la pavoncella madre disse. “Chi porta a buon fine le sue azioni, preoccupandosi del futuro e chi cerca di trovare soluzioni ai suoi problemi, fa fronte alle disgrazie e sa essere felice. Ma chi si lascia portare dal destino ne viene distrutto.”
    La pavoncella maschio chiese incuriosito: “Com’è che uno che si abbandona al suo destino viene distrutto?”
    La compagna gli raccontò allora la storia dei tre pesci.


    15. Storia dei tre pesci

    In un lago vivevano tre pesci. Si chiamavano Anagatvidhata, Pratyutpannamati e Yabdhavishya.
    Un giorno passarono da quel lago alcuni pescatori, molo contenti di trovarlo pieno di pesci. Decisero che il giorno dopo si sarebbero messi a pescare lì.
    Quando Angatvidhata venne a saperlo disse ai suoi amici: “Avete sentito? Bisogna che durante la notte andiamo in un altro lago. E’ noto che quando ci si imbatte in un nemico potente si deve scappare”.
    Pratyupannamati si disse d’accordo, ma Yabhdavishya disse di non condividere la decisione:
    “Dovremmo abbandonare questo lago che è stato abitato dai nostri antenati? Se siamo destinati a morire, moriremmo anche in qualsiasi posto andiamo. Io resto qui. Voi siete liberi di fare come volete.”
    Gli altri due se ne andarono in un altro lago. La mattina i pescatori arrivarono e presero nelle loro reti Yabhdavishya insieme ad altri pesci.

    Finita la storia la pavoncella maschio disse alla femmina:
    “Pensi davvero che io sia come quel pesce? Aspetta un po’ e vedrai come riesco a prosciugare il mare col becco!”
    L pavoncella disse: “Non può esserci paragone fra te e il mare e la rabbia di un incapace distrugge solo lui stesso. Inoltre, chi affronta il nemico potente senza rendersi conto di quanta forza ha verrà distrutto come un insetto preso nella fiamma.”
    Ma la pavoncella maschio disse alla sua compagna di non sottovalutare la sua forza e gridò con forza: “Mia cara! Quando uno è dotato di entusiasmo e di capacità, non ha importanza che sia grande o che sia piccolo. Un grande elefante può essere controllato con un piccolo uncino di ferro. E non appena appare e brilla un piccolo lampo, l’oscurità scompare”.
    Quando la pavoncella vide che lui era deciso a combattere il mare gli raccomandò di farsi aiutar dagli amici, poiché – disse – “anche il debole diventa invincibile se si unisce ad altri”.
    “Se ti fai aiutare dai tuoi amici – aggiunse – potrai forse lottare contro il mare, proprio come il picchio, il passero, la rana e la zanzara riuscirono a sconfiggere un potente elefante”.
    Prima di partire la pavoncella maschio volle sentire la storia. E la compagna gliela raccontò.


    16. Il passero e l'elefante

    Una coppia di passeri viveva in una foresta. Avevano il nido in un grande albero. Di lì a qualche giorno la passerotta depose le uova.
    Un giorno un elefante venne a riposarsi all’ombra dell’albero. Quel giorno faceva molto caldo. Con poco sforzo l’elefante staccò il ramo dell’albero dov’era il nido; i passeri la scamparono, ma le uova caddero e si ruppero. In qualche modo i passeri riuscirono a sopravvivere.
    La femmina cominciò a gemere vedendo distrutte le sue uova. E proprio in quel momento arrivò un picchio di nome Sudansunak, che era amico dei due passeri. Disse il picchio:
    “Non serve a niente piangere per qualcosa che si è perso. E’ noto che non bisogna piangere sulle cose perse, su una persona morta e sul tempo passato”.
    La passera disse che quello che diceva era assolutamente vero. “Ma la mia tristezza resterà finché quel malvagio elefante resterà vivo. Solo se mi aiuterai ad ucciderlo sparirà il mio dispiacere”.
    Il picchio fu d’accordo nel voler aiutare i passeri e andò subito a chiamare la sua amica Vinarwa, la zanzara. L raccontò la brutta storia e anche la zanzara accettò di aiutare i passeri. Insieme al picchio si recò da Meghananda, la rana, che era sua amica. Quando la rana seppe di quella storia si arrabbiò molto contro il malvagio elefante.
    “Cosa sarà mai quel cattivo elefante di fronte alla nostra forza collettiva?”
    La rana elaborò un piano: la zanzara sarebbe andata a ronzare nelle orecchie dell’elefante che rapito dal suono avrebbe chiuso gli occhi. Rapido il picchio lo avrebbe accecato col suo becco appuntito. Nel pomeriggio l’elefante cieco avrebbe avvertito la sete e sarebbe andato a cercare acqua. Meghananda si sarebbe messa a gracidare vicino a un burrone. L’elefante avrebbe seguito il segnale avvicinandosi al burrone e vi sarebbe precipitato dentro, morendo.
    Il piano fu eseguito con successo e l’elefante morì cadendo nel burrone.

    La pavoncella maschio disse che avrebbe seguito i consigli della sua compagna. Andò a chiamare il pavone, la gru e l’anatra. Chiese il loro aiuto per prosciugare il mare. Ma ritenendo impossibile la cosa, tutti e tre rifiutarono. Dissero alla pavoncella che il loro signore era Garuda, il serpente alato di Vishnu. Lui avrebbe sicuramente potuto aiutarlo.
    Così andarono insieme da Garuda e gli dissero quali erano le intenzioni della pavoncella, chiedendogli di aiutarlo. Garuda promise il suo aiuto. Stava elaborando un piano quando improvvisamente arrivò il messaggero del Signore Vishnu, informandolo che Vishnu desiderava recarsi ad Amravati. Un po’ arrogantemente Garuda disse:
    “Va e di’ a Vishnu di cercarsi un altro veicolo. Io devo andare a prosciugare l’acqua del mare!”
    Il messaggero restò di stucco. Mai aveva visto Garuda così sgarbato. Gli chiese perché fosse così arrabbiato e Garuda gli raccontò come il mare aveva distrutto le uova della pavoncella madre.
    Il messaggero tornò da Vishnu e gli raccontò la storia. Vishnu disse che Garuda aveva tutte le ragioni di essere arrabbiato col mare. E si recò da Garuda per calmarlo.
    Non appena Garuda lo vide si vergognò di se stesso poiché a causa sua il Signore Vishnu era dovuto venire a piedi. Ma era ancora arrabbiato col mare e disse:
    “Signore! Il mare si è disonorato portando via le uova di un mio fedele. Se tu non fossi venuto, avrei prosciugato l’oceano in men che non si dica!”
    Comprendendo la giusta rabbia di Garuda, il Signore Vishnu estrasse il suo tremendo Agnibaan, deciso a prosciugare il mare. Il mare ne fu terrorizzato e immediatamente restituì le uova alla pavoncella maschio. Che a sua volta le restituì alla sua compagna.

    Finito di raccontare la lunga storia, Damanak disse: “Si deve attaccare il nemico solo dopo aver correttamente valutato la propria forza e la propria debolezza. Ma è anche vero che non bisogna mai interrompere gli sforzi”.
    Sanjeevak era ancora poco convinto. Disse:
    “Amico, non riesco proprio a capire come abbia cominciato a nutrire odio nei miei confronti. Ho sempre notato il suo amore per me e nient’altro.”
    Damanak gli disse che non era per niente difficile capirlo.
    “Se i sui occhi si arrossano nel vederti – disse – le sue sopracciglia sono aggrottate, se comincia a leccarsi gli angoli della bocca con la lingua, capirai subito che è arrabbiato con te e cova odio nei tuoi confronti.
    Gli raccomandò anche di non svelare a nessuno e a nessun costo quell’abboccamento segreto fra loro due. Infine gli suggerì di andarsene prima di notte.
    Damanak andò quindi a trovare Kartak. Gli raccontò tutta la storia di come era riuscito a insinuare il seme del sospetto tra Pingalak e Sanjjevak. Era convinto che l’indomani mattina l’amicizia tra i due sarebbe finita.
    Kartak non era affatto contento degli sforzi di Damanak nel creare dissidio fra i due. Damanak gli ricordò che colui che no distrugge i nemici fin dall’inizio dovrà pagare il prezzo di essere distrutto alla fine dai nemici stessi. E disse che aveva fatto tutto ciò per guadagnarsi il posto di ministro.
    “Sanjeevak è mio nemico perché mi ha sottratto un diritto” – disse, continuando a lamentarsi nei confronti di Sanjeevak.
    “Sono stato io a condurlo da Pingalak ma lui mi ha buttato giù seminando il dubbio nella mente di Pingalak riguardo alle mie capacità ed è diventato lui il ministro, mentre quello era un mio diritto. Chi è esperto in politica raggiunge il suo scopo anche a costo di far penare e soffrire gli altri. Solo i folli e gli idioti sono incapaci di badare a se stessi, proprio come quel Chaturak, lo sciacallo.”
    L’allusione incuriosì Kartak al punto che volle sapere a tutti i costi la storia di Chaturak.





    17. Chaturak lo sciacallo

    In una foresta viveva un leone chiamato Vajradanta. Aveva due attendenti. Uno era Chaturak, lo sciacallo, l’altro era Kravyamuka, il lupo. Entrambi seguivano il loro padrone ovunque andasse.
    Un giorno il leone uccise una cammella pregna che si era allontanata dal branco. Non appena le aprì la pancia vide il piccolo. Il leone divorò la cammella insieme allo sciacallo e al lupo, ma ebbe compassione del cucciolo e lo affidò agli altri due. Lo chiamarono Shankukarna e in breve tempo il cammello diventò grande.
    Un giorno il leone dovette combattere contro un elefante e rimase gravemente ferito. Le ferite lo resero inabile alla caccia. Il leone diede l’incarico allo sciacallo e al lupo di cercare un animale che potesse uccidere anche nella sua condizione di invalido. Lo sciacallo e il lupo provarono a cercarlo in tutti i modi, ma non lo trovarono. Allora lo sciacallo disse a Shankukarna:
    “Il nostro signore non può soddisfare i morsi della fame. Se gli succede qualcosa, neppure noi riusciremo a sopravvivere come possiamo fare agevolmente oggi.”
    L’astuto sciacallo riuscì ad ingannare quel semplicione del cammello con la frode.
    “Offri il tuo corpo al padrone – propose - e ne trarrai un duplice vantaggio. Non solo potrai soddisfare la sua fame, ma il tuo corpo crescerà del doppio”.
    La proposta piacque al cammello, dato che anche lui desiderava diventare molto grande come gli altri cammelli. Per cui disse allo sciacallo:
    “Se è così, sarò ben felice di aiutare il padrone; ma lo farò solo in presenza del signore della morte”.
    Andarono insieme dal leone e Chaturak disse:
    “Signore, Non siamo riusciti a trovare un animale che tu possa uccidere nelle tue condizioni precarie. Ma il Sole è di nuovo spuntato, Shankukarma vuole donarti il suo corpo alla presenza del signore della morte per trarne doppio profitto”.
    Il leone gradì la proposta e non appena accordò il suo permesso, lo sciacallo e il lupo uccisero Shankukarna, Vajradanta andò a fare un bagno, raccomandando loro di custodire le carni del cammello. Chaturak voleva mangiarsele lui e studiò il modo di allontanare Kravyamukha.
    Amico mio, - disse lo sciacallo al lupo – mi sembri molto affamato! Mangia questa carne! Quando il padrone ritorna ci penserò io a provare la tua innocenza”.
    Kravyamukha cominciò a mangiare. Chaturak lo avvertì che il padrone stava tornando e il lupo si allontanò. Non appena il leone si accorse che il cuore del cammello era stato mangiato gridò con rabbia: “Chi ha osato toccare questa carne?”
    Kravyamukha si fermò a guardare Chaturak, convinto che lo avrebbe difeso. Ma Chaturak era tranquillo e disse al lupo:
    “Perché guadi dalla mia parte? Nonostante le mie raccomandazioni, non hai voluto ascoltarmi e hai cominciato a mangiare. Kravyamukha pensò bene di dileguarsi.
    Mentre il leone si accingeva a mangiare sentì improvvisamente un suono di campanelli. Incuriosito chiese a Chaturak di scoprire da dove veniva il suono. Chaturak si allontanò di poco e tornò indietro dicendo:
    “Signore! Meglio che tu scappi. Il signore della morte è arrabbiato con te perché hai ucciso Shankukarna prima del tempo. Sta arrivando con i suoi antenati. Il cammello, che sta insieme agli altri ha un campanello attorno al collo. E’ questo che fa quel suono così forte”.
    Il leone andò a vedere se era davvero così. Quando vide avvicinarsi il branco dei cammelli si spaventò e fuggì via. Lo sciacallo, felice, divorò tutta la carne.

    Finita la storia, Damanak disse:
    “Ecco perché ho detto che bisogna impegnarsi con tutti i mezzi per raggiungere lo scopo”.
    Dopo che se ne fu andato, Sanjeevak pensò che fosse stato un errore diventare amico di Pingalak.
    “Dove vado adesso? – si diceva – Che cosa farò? Tornerò da Pingalak? Forse se mi affido a lui mi salverà la vita”.
    Così pensando andò dove Pingalak viveva. Osservandolo si accorse che faceva i gesti che Damanak gli aveva descritto e si convinse che tutto quello che lui gli aveva detto era vero. Si fermò a una certa distanza da Pingalak senza neppure salutarlo. E quando Pingalak vide come si comportava si convinse anche lui che le supposizioni di Damanak erano esatte. Gli balzò addosso e lo ferì alla schiena. Sanjeevak lo attaccò con le corna e in qualche modo riuscì a tenersi a distanza.
    Quando Kartak li vide entrambi feriti ammonì Damanak, dicendogli che non aveva fatto una cosa buona a creare quel dissidio fra i due.
    “Damanak! – disse – Sei un folle! Se Pingalak dovesse morire delle sue ferite tutti i tuoi sforzi, a quel punto, saranno stati vani; se sopravvivrà all’attacco sarà lo stesso un disastro, perché il pericolo di venire attaccato da Sanjeevak sarà sempre grave per lui. Dunque è necessario che Sanjeevak muoia. Sei un folle! E tuttavia non è colpa tua. La colpa è del padrone che è stato così ingenuo da fidarsi di te. Tu non sei affatto adatto a diventare suo ministro. Proprio come non è il caso di sforzarsi di tagliare una pietra col coltello, così non vale la pena di insegnare a un discepolo senza merito, com’era nel caso di Suchimukha”.
    Damanak voleva sapere la storia di Suchimukha. E Kartak gliela raccontò.


    18. L'uccello Suchimukha

    Un branco di scimmie viveva ai piedi di una montagna. Ci fu un inverno eccezionalmente freddo per via di abbondanti nevicate. Di conseguenza le scimmie non riuscivano a sopportare il freddo. Qualcuna di loro aveva scorto dei frutti fibrosi sul terreno che brillavano come tizzoni. Scambiandoli per tizzoni cominciò a soffiarli con l’intenzione di fare un fuoco. Un uccello chiamato Suchimukha la vide mentre faceva questo e cercò di convincerla dell’inutilità dello sforzo, ma la scimmia non volle ascoltarlo.
    Disse Suchimukha: “Siete matte! Non sono tizzoni quelli, ma dei frutti fibrosi. Non riuscirete mai a fare il fuoco con quelli. Meglio sarebbe per voi cercare qualche riparo per difendervi da questo freddo impossibile”.
    Una delle scimmie rispose aspramente che non erano affari suoi e continuò a fare quel che credeva giusto fare.
    Si dice bene che una persona intelligente non deve cercare di mettere in guardia un’altra che si ostina a sbagliare nel fare le sue cose. Ma Sushimuckha continuò a ripetere che i loro sforzi erano inutili. Le scimmie, già seccate per i loro inutili tentativi di accendere il fuoco si arrabbiarono ancora di più. E uccisero Suschimukha scagliandolo contro una roccia.

    Finita la storia, Kartak disse: “Un discorso fatto a una persona folle non fa altro che attizzare la sua rabbia. Per esempio, una scimmia folle in questo modo fece del suo padrone un poveraccio”.
    Incuriosito Damanak volle sapere la storia della scimmia folle e del suo padrone.
    E Kartak gliela raccontò.


    19. Il passero e la scimmia

    In una foresta viveva una coppia di passeri. Avevano fatto il nido sui rami di un albero Shami (capoc). Un giorno, durante l’inverno, arrivò una scimmia. Tremava di freddo e se ne stava su un cespuglio spinoso. Le battevano i denti. Vedendo in che condizioni era la scimmia il passero le disse: “Peccato che pur avendo l’uso delle mani tu stia soffrendo in questo clima gelido. Ti saresti potuta costruire una casa con quelle mani e avresti facilmente risolto la cosa”.
    La scimmia si arrabbiò e disse al passero di stare zitto. Di lì a poco il passero si ripeté on le stesse parole. E la scimmia gli disse un’altra volta di non dire sciocchezze. Ma il passero non gliela dava vinta. Finché la scimmia pensò: “Questo passero malizioso si prende gioco di me. Deve proprio credersi molto intelligente”.
    Il passero riprese a dirle le stesse cose. E la rabbia della scimmia crebbe oltre ogni limite, al punto che distrusse il nido del passero.
    E’ proprio vero che un consiglio non richiesto porta danno al consigliere.

    Finita la storia, Kartak ammonì ancora una volta Damanak.
    “O folle Damanak! – disse – Nonostante le mie insistenze tu non vuoi imparare. Ho detto che non è colpa tua, dato che la conoscenza benefica soltanto chi è virtuoso, non certo chi non lo è. Una persona maligna finisce per causare male a se stessa, sentendosi felice dell’infelicità altrui. E il tronco continua a danzare anche dopo he la testa è stata tagliata!”

    A quel punto Kartak raccontò la storia di Dharmabuddhi e di Paapbuddhi dove si parla dell’incidente nel quale un figlio chiamato Kubuddhi uccise suo padre soffocandolo fino alla morte.
    Damanak voleva sapere questa storia e Kartak gliela raccontò.



    20. Dharmabuddhi e Paapbuddhi

    In una città vivevano due amici. Si chiamavano Dharmabuddhi e Paapbuddhi; il primo era molto intelligente, il secondo decisamente meno. Un giorno Paapbuddhi decise di emigrare da un’altra parte e fare soldi con l’aiuto dell’amico. Ma aveva anche deciso che alla fine si sarebbe appropriato disonestamente dei soldi di Dharmabuddhi.
    Un giorno disse a Dharmabuddhi : “Amico, ricordi di aver fatto qualcosa di cui potrai andare fiero quando sarai vecchio? Qualche merito particolare da ricordare e condividere con i tuoi figli? Che cosa racconterai ai tuoi figli se non sei stato in nessun paese straniero? La vita di un individuo non ha senso senza aver appreso varie lingue e culture viaggiando in luoghi lontani.”
    Dharmabuddhi concordò e si disse contento di accompagnarlo in un paese straniero. Un bel mattino i due amici si misero in viaggio. Andarono in un paese straniero e fecero buoni affari, accumulando ricchezze e denaro. Alla fine decisero di ritornare al paese natio.
    Stavano per arrivare alla loro città quando Paapbuddhi disse a Dharmabuddhi:
    “Amico, non mi sembra una buona cosa tornare a casa con tutti questi beni: parenti e amici ci chiederanno soldi. Meglio seppellire una buona parte del denaro qui sotto, nella foresta e portar con noi poco denaro. Quando ne avremo bisogno potremo sempre tornare a prenderne dell’altro”.
    Dharmabuddhi fu d’accordo e i due tornarono a casa dopo aver seppellito la maggior parte delle loro ricchezze. Ma durante la notte, Paapbuddhi tornò sul posto e si portò via tutto. La mattina successiva disse a Dharmabuddhi:
    “Amico, ho una grossa famiglia da sostenere. Per cui dobbiamo recuperare i soldi. Andarono sul posto e quando Dharmabuddhi si rese conto di aver perso tutto cominciò a piangere di dolore. Era sicuro che l’altro lo aveva ingannato, per cui gli disse:
    “Restituiscimi i miei soldi o sarò costretto a presentare una denuncia contro di te al re”.
    Ma l’altro si rifiutò di rendergli la sua parte. Cominciò una interminabile serie di accuse e contro accuse, finché si presentarono entrambi alla reale corte di giustizia. Il giudice che presiedeva la corte chiese loro di prestare giuramento. Ma Paapbuddhi si rifiutò di farlo contestando al giudice che non era quello il modo di fare giustizia. Disse al giudice che la norma era quella di esaminare prima di tutto le prove documentarie. In mancanza di queste il giudice doveva indagare se c’erano testimoni del delitto. Il giuramento era l’ultima risorsa.
    Continuando con le sue argomentazioni Paapbuddhi disse:
    “La dea della foresta, Vandevata, è la nostra testimone. Solo lei conosce il vero colpevole. Tutti gli addetti alla corte apprezzarono quella logica e decisero all’unanimità di porre il quesito alla divinità della foresta l’indomani mattina.
    Paapbuddhi chiese a suo padre di andare a nascondersi nella cavità di un albero di capoc nella foresta e lo istruì come segue: “Quando ti chiederanno chi è il colpevole farai il nome di Dhramabuddhi”.
    La mattina dopo Paapbuddhi andò nella foresta in compagnia del giudice e dell’intera corte. Si mise di fronte all’albero di Shami (capoc) e gridò:
    “O dea ella foresta, tu sai chi è il vero colpevole. Dicci il suo nome”
    Il padre di Paapbuddhi, nascosto nella cavità dell’albero, disse con voce cavernosa:
    “Il colpevole è Dharmabuddhi. E’ lui che ha rubato tutti i soldi”
    Tutti si stupirono di quella rivelazione. Dharmabuddhi restò esterrefatto. Intuì subito che Paapbuddhi aveva architettato l’inganno e decise di venirne a capo. Raccolse dell’erba secca e della legna e dopo averle ammucchiate attorno alla cavità dell’albero accese un grande fuoco. Di lì a un po’ il padre di Paapbuddhi bruciacchiato venne fuori alla cavità. Mentre gli altri lo guardavano con grande stupore raccontò l’intera storia e non appena ebbe rivelato ogni cosa morì.
    Elogiando Dharmabuddhi il giudice decise di consegnargli tutti i soldi e disse:
    “Sta all’uomo accorto prendere in seria considerazione sia l’aspetto positivo che quello negativo dei mezzi adottati, in caso contrario andrà incontro allo stesso destino che toccò all’anatra folle”.
    Incuriosito Dharmabuddhi chiese: “Che cosa successe all’anatra?”
    E il giudice gli raccontò la storia.


    21. L'airone e il serpente

    Il giudice forse confuse l’anatra con l’airone che viveva in una foresta insieme a molti altri su un grande albero di banyan. Lì viveva anche un cobra nero che aveva la sua tana in una cavità ai piedi dello stesso albero. Il cobra era solito divorare le uova e i pulcini degli aironi. E’ probabile che divorasse anche quelli delle anatre, e questo potrebbe spiegare la lieve confusione fatta dal giudice.
    Un giorno l’airone, che aveva perso i suoi pulcini per via del cobra, piangeva sulla riva del lago. Un granchio chiamato Kulirak lo sentì piangere e chiese:
    “O bell’airone, che cosa è successo? Perché piani?”
    L’airone gli raccontò i suoi guai e chiese al granchio di aiutarlo a trovare il modo di distruggere il cobra.
    Kulirak il granchio considerava da sempre l’airone come suo nemico ed era contento che il nemico fosse nei guai. Pensava che sarebbe stato meglio se l’intera specie egli aironi venisse distrutta. Escogitò un piano e disse:
    “Dissemina tutte le spine dei pesci che hai mangiato dalla tana della mangusta fino a quella del cobra. La mangusta seguirà le tracce e ucciderà il cobra”.
    L’airone apprezzò il piano. E lo eseguì alla lettera, seguendo le istruzioni del granchio. Ma alla fine per lui si rivelò una catastrofe. La mangusta infatti uccise il cobra ma divorò anche tutti i pulcini e le uova degli aironi.
    Pertanto, un uomo deve saper prevedere le eventuali conseguenze negative dei mezzi da lui adottati.
    Dopo aver completato la storia Kartak disse a Damanak:
    “Tu non ti rendi conto delle conseguenze che avrà su di te l’aver creato dissapori tra Pingalak e Sanjeevak. Provocando danni al padrone hai messo in luce la tua meschinità. E se hai fatto questo al padrone non risparmierai neanche me. Tu non sei un uomo affidabile. Fuori dai piedi! Sparisci! Se è possibile che un ratto mangi mille pezzi di ferro non c’è dubbio che un falcone possa sollevare un bambino piccolo”.
    Damanak incuriosito chiese: “Come e quando è successo?”
    E Kartak gli raccontò quest’altra storia.



    22. La bilancia di ferro

    Il figlio di un droghiere, di nome Jeernadhan viveva in una città. Ebbe la disgrazia di diventare povero a causa di gravi perdite nel commercio. Per cui decise di cercare fortuna migrando in un’altra città. Pensava infatti che la gente della città dove aveva vissuto fino ad allora avevano conosciuto la sua prosperità e ora lo avrebbero condannato per via della triste condizione in cui era caduto.
    Jeernadhan possedeva una bilancia di ferro che pesava mille grammi. Prima di migrare in un’altra città decise di darla in pegno a un ricco mercante, con la promessa di restituirgliela quando sarebbe tornato. Il ricco mercante fu contento di prendere la bilancia.
    Dopo molto tempo Jeernadhan tornò da lui per farsi restituire la bilancia. Ma il ricco mercante disse:
    “Mi dispiace, se la sono mangiata i ratti”
    Jeernadhan rimase alquanto stupito del fatto che il mercante non volesse restituirgli la bilancia e si prendesse gioco di lui a quel modo. Ci pensò su u momento e disse:
    “Bene! Perché preoccuparsi di una così piccola cosa? Puoi permettere a tuo figlio di accompagnarmi a fare il bagno?”
    Il ricco mercante gradì l’invito e permise a suo figlio Dhanena di andare con lui. Dopo aver fatto il bagno, Jeernadhan rinchiuse il figlio del mercante in una caverna e chiuse l’entrata con un grosso macigno. Tornò alla casa del mercante, il quale, vedendolo tornare solo, chiese dove fosse suo figlio.
    Aspettandosi quella domanda Jeernadhan rispose:
    “Mi dispiace, mentre stavo facendo il bagno un grande falco si è preso tuo figlio ed è volato via”.
    “Come è potuta accadere una cosa simile? - disse il ricco mercante – E’ impossibile!”
    Ne nacque un’aspra controversia tra i due e dovettero recarsi a corte per risolvere la disputa. Il mercante accusò Jeernadhan di avergli sequestrato il figlio:
    “Questo miserabile – disse al giudice – ha rapito mio figlio e non me lo ha riportato indietro”
    Jeernadhan replicò:
    “Signore, se i ratti possono mangiarsi una bilancia di ferro, un falcone può benissimo portarsi via un bambino".
    Il giudice trovò divertente la risposta e gli chiese di raccontare in dettaglio l’intera storia.
    Alla fine ordinò al ricco mercante di restituire la bilancia a Jeernadhan e quest’ultimo riaccompagnò subito il figlio dal padre.

    Finita la storia Kartak disse a Damanak:
    “Damanak! Tu sei una persona gelosa. Eri geloso di favori mostrati da Pingalak a Sanjeevak. E’ proprio vero che un nemico istruito è migliore di un amico folle, proprio come nel racconto del re che fu ucciso dal suo amico, una scimmia matta, mentre la vita del bramino fu salvata da un piccolo ladro”.
    Incuriosito Damanak chiese ella storia del re e della scimmia.
    E Kartak gliela raccontò insieme a quel la del bramino e del ladro.


    23. Il re e la scimmia matta

    C’era una volta un re che aveva una scimmia addomesticata. La scimmia faceva molte cose per il re. Quando il re andava a dormire lo sventolava. Una volta, mentre il re dormiva, la scimmia vide una zanzara posata sul suo petto. La scimmia scacciò la zanzara. Ma la zanzara tornò e si posò sul naso del re. La scimmia la scacciò via di nuovo. E siccome la cosa andava avanti così, la scimmia si irritò molto. Così decise di uccidere la zanzara con una spada e risolvere il problema una volta per tutte.
    Di lì a poco, no appena la scimmia vide la zanzara posarsi sul torace del re la colpì con un potente colpo di spada. La spada non sfiorò neppure la zanzara, che volò via. A rimanere ucciso fu il re.


    24 Il bramino e il ladro

    In una città viveva un colo bramino. Ma per via delle azioni commesse nelle sue vite precedenti diventò un ladro. Un giorno vide altri quattro bramini che erano venuti a vendere dei beni e il ladro decise di conquistarsi la loro fiducia. Si presentò ad essi e li impressionò favorevolmente con la sua conoscenza. I bramini furono conquistati da lui e lo accettarono come attendente.
    Un giorno i bramini decisero di tornare al loro paese. Vendettero tutto quel che avevano e acquistarono dei gioielli preziosi. Il ladro non era ancora riuscito a rubare le loro sostanze per cui si sentì in ansia non appena seppe che erano intenzionati a chiudere i loro negozi. Non se la sentiva di lasciarli andar via prima di aver raggiunto il suo obiettivo. Così domandò loro:
    “O sapienti bramini, vivendo in vostra compagnia mi sono molto affezionato a voi, al punto che non riesco a sopportare di dovermi separare da voi. Verrò via con voi”.
    I bramini erano contenti che lui andasse con loro. Tuttavia nascosero i gioielli sotto le vesti. Mentre attraversavano u villaggio chiamato Pallipur i corvi li videro. Quei corvi erano complici dei briganti che derubavano i viaggiatori. Cominciarono quindi a gracchiare:
    “Briganti! Presto accorrete! In fretta! Ci sono quattro bramini che hanno addosso un milione e duecentocinquanta mila rupie! Portategliele via!”


    I briganti piombarono addosso ai bramini, li picchiarono con i bastoni e li svestirono.
    Non trovarono niente e rimasero perplessi. Ma avevano fiducia nei corvi. Perciò minacciarono i bramini di ucciderli se non avessero consegnato le ricchezze. Il ladro cominciò temere che sarebbe stato ucciso insieme ai bramini. Pensò: “Se le cose vanno così, non potrò impossessarmi ei loro beni. Inoltre questi poveracci verranno uccisi. Se salvassi le loro vite sacrificandomi andrò in cielo”.
    Allora il ladro disse ai briganti:
    “Se non vi fiate dei bramini, potete scoprire la verità uccidendo me per primo”.
    I briganti uccisero il ladro ma non trovarono i gioielli, così risparmiarono i bramini.

    Mentre Kartak narrava questa storia a Damanak, il bue Sanjjevak fu seriamente ferito da un assalto di Pingalak e cadde a terra. Temendo che fosse morto, Pingalak si sentì depresso e cominciò a rimproverare se stesso:
    “Ho commesso un peccato imperdonabile uccidendo Sanjjevak. Non ho fatto altro che ingannare me stesso”
    Dmanak era molto felice che Sanjeevak fosse morto; adesso la strada era aperta per poter diventare ministro. Cercò così di consolare Pingalak:
    “Si potrà mai concedere a un re di piangere la morte di una creatura di basso rango come un uccello o un bue, che abbia albergato malevolenza o inimicizia nei suoi confronti? Dicono bene le scritture che non si deve esitare ad uccidere la moglie, il figlio, il padre o l’amico se uno di essi ha attentato alla propria vita”.
    Le spiegazioni di Damanak convinsero Pingalak. Per cui lo nominò ministro, proprio come Damanak si aspettava.



    Fine libro primo.

    Edited by rsorrt - 26/12/2005, 20:33
     
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    Panchatantra
    Secondo Tantra


    L’unione fra amici


    - Il corvo, Il topo e la tartaruga
    - L’eremita e il topo
    - La donna che voleva scambiare i semi di sesamo
    - Storia dello sciacallo ingordo
    - Il figlio del droghiere
    - Somilak il tessitore
    - Il bue e lo sciacallo
    - Somilak alla ricerca del suo destino
    - Il cervo in fuga




    1. IL CORVO, IL TOPO E LA TARTARUGA


    Vicino alla città di Mahilaropya, nel sud dell’India, c’era un grande albero di banyan: moltissimi uccelli si cibavano dei suoi frutti e nel cavo del tronco vivevano molti vermi e insetti. Quelli che passavano di lì, animali e uomini, si fermavano volentieri a riposare sotto la sua grande ombra.
    Lì viveva il corvo chiamato Laghupatnak. Un giorno, mentre volava sui dintorni della città, vide un uccellatore che si avvicinava al grande banyan; aveva con sé una rete, quindi non aveva buone intenzioni. Il corvo temette per la vita degli uccelli che vivevano sull’albero e tornò subito lì per avvertirli dell’arrivo dell’uccellatore.
    “L’uccellatore sta per spargere granaglie intorno all’albero per intrappolarvi. Non cadete nella trappola!”
    L’uccellatore arrivò presso l’albero, sparse intorno le sue granaglie e si nascose dietro un cespuglio.
    Ma gli uccelli non si mossero e non mostrarono interesse per il cibo. Proprio in quel momento arrivò Chitagreeva, il re dei piccioni, in compagnia dei suoi . Laghupatnak lo mise in guardia ma quello non prestò ascolto ai suoi avvertimenti. Così tutti i piccioni restarono intrappolati nella rete dell’uccellatore. E quando lui li vide intrappolati si avvicinò per catturarli. Chitragreeva disse agli altri piccioni di restare calmi, poiché solo chi è dotato di una intelligenza che non si lascia turbare può affrontare con successo le calamità. Così Chitragreeva disse ai colombi di volare via insieme alla rete.
    “Cercherò di liberarvi dalla rete – disse – non appena vi allontanerete e sarete fuori dalla vista dell’uccellatore”.
    I piccioni seguirono le sue istruzioni. L’uccellatore li seguì, pensando che prima o poi i piccioni avrebbero cominciato a litigare fra di loro e sarebbero venuti giù. M non andò così e l’uccellatore dovette tornarsene a casa scornato. Non solo non aveva preso uccelli, ma aveva perso anche la rete, che era il suo mezzo di sopravvivenza.
    Quando Chitragreeva vide che l’uccellatore aveva smesso di inseguire i suoi compagni li avvertì di dirigersi verso Mahilaropya, nel luogo dove viveva il suo amico Hiranyak il topo, che li avrebbe liberati dalla rete tagliandola con i suoi denti aguzzi.
    Hiranyak il topo viveva al sicuro nella sua tana, che aveva un migliaio di aperture e somigliava a una fortezza. Avvicinatosi alla tana, Chitragreeva chiamò Hiranyak e appena lui sentì il richiamo venne fuori. Hiranyak voleva liberare subito Chitragreeva, ma lui gli disse di liberare prima gli altri piccioni.
    “Hiranyak – disse – in quanto re ho la responsabilità dei miei sudditi. Supponi che liberandomi i tuoi denti si rompano, i miei sudditi resterebbero intrappolati. E se accadesse una cosa simile io andrei all’inferno”.
    Hiranyak apprezzò molto il senso di responsabilità e del dovere del suo amico. Liberò gli altri colombi e solo alla fine liberò Chitragreeva.
    Laghupatnak il corvo volava attorno ai colombi intrappolati, curioso di vedere come sarebbe andata a finire. Fu stupito di vedere i piccioni liberati dalla rete e rimase ben impressionato da Hiranyak, così da voler diventare suo amico. Quindi lo chiamò per nome imitando la voce di Chitrageeva, e il topo credette che forse l’amico piccione lo stesse chiamando di nuovo. Strisciò fuori dalla tana , ma non appena si accorse che si trattava di un altro chiese: “Chi sei?”
    Laghupatnak si presentò ed espresse il desiderio di fare amicizia con lui. Ma Hiranyak rifiutò l’amicizia per via dell’avversione naturale che esiste tra un corvo e un topo.
    Allora il corvo gli disse:
    “Le persone istruite diventano amiche non appena recitano sette versi insieme o se fanno insieme sette passi. Sono venuto qui per essere tuo amico; se non mi accetti come tale, dimmi almeno che ti va di parlare con me ogni volta che verrò a trovarti. Mi basterà solo questo.
    Considerandolo un grande erudito, alla fine il topo accettò di diventare amico del corvo, ma gli proibì di entrare nella sua tana. Il corvo si disse d’accordo.
    In poco tempo diventarono grandi amici: conversavano insieme, si scambiavano il cibo, e così via. E tuttavia la loro amicizia era ancora superficiale. Dopo alcuni giorni il topo aveva preso confidenza col corvo al punto da parlargli standosene tranquillamente seduto all’ombra delle sue ali aperte.
    Un giorno, con le lacrime agli occhi, Laghupatnak disse ad Hiranyak:
    “Amico mio, non posso più fermarmi qui; sono deluso di questo posto”
    Hiranyak gli chiese il motivo della sua disillusione. Lui disse che ogni tanto lì c’era carestia e lui si trovava in seria difficoltà per riuscire a sopravvivere. Hiranyak gli chiese dove avesse intenzione di andare. E il corvo gli disse: “La mia grande amica Mantharak, che è una tartaruga, vive in un profondo lago pieno d’acqua, che è situato in una folta foresta. Mantharak mi fornirà ogni giorno di pesce e io lì starò davvero bene”.
    Anche il topo espresse il desiderio di andare con lui, dicendogli che anche a lui toccava fare severi digiuni. Laghupatnak era davvero contento della cosa ma non sapeva come poteva portarlo con sé:
    “Tu non sai volare, come potrai venire insieme a me?”
    Il topo gli chiese di caricarselo sul dorso. Laghupatnak andava molto fiero della sua abilità nel volo, quindi accettò di caricarsi il topo sulle spalle. Hiranyak si arrampicò agilmente e Laghupatnak si alzò in volo in direzione del lago dove viveva la sua amica Mantharak.
    Quando Mantharak vide quello strano corvo che portava sulle spalle un topo si spaventò ed entrò in acqua. Laghupatnak depositò il topo nel cavo di un albero e andò a trovare Mantharak, chiamandola. Mantharak riconobbe la voce dell’amico e venne fuori dall’acqua. Entrambi erano molto contenti di rivedersi. La tartaruga gli chiese del topo.
    “Chi era quel topo che se ne stava sulle tue spalle? Essendo il topo un nemico naturale del corvo, come mai sei in amicizia con lui?”
    Laghupatnak raccontò alla tartaruga che quello era il suo amico Hinanyak, che arrivò proprio in quel momento, salutò la tartaruga e se ne stette tranquillo lì. Il corvo presentò il topo alla tartaruga dicendo:
    “Hiranyak, apparentemente così piccolo, ha davvero molte qualità. Anche lui è rimasto deluso come me”.
    Mantharak chiese il motivo della sua delusione e Hiranyak le raccontò la storia dell’eremita.


    L’eremita e il topo

    Nella città di Mahilaropya c’era una volta un tempio dedicato al signore Mahadeva; lì viveva un eremita di nome Tamrachud. Ogni giorno andava a chiedere l’elemosina per le strade e i vicoli della città. E ogni giorno raccoglieva abbastanza per togliersi la fame. Ogni giorno, dopo aver mangiato una razione di cibo sufficiente per sfamarsi, appendeva in alto quel che restava, fuori della portata di cani e gatti. E la mattina dopo lo dava ai suoi servitori e ai suoi fedeli. A quel tempo anch’io – continuò il topo – vivevo in quel tempio e un giorno i miei amici mi dissero di quel cibo che l’eremita sistemava in alto per sicurezza. Essi chiesero di aiutarli a prendere quel cibo. Andai con loro sul posto e con un solo balzo raggiunsi il nascondiglio e presi il cibo. Lasciai che i miei amici si sfamassero per primi e poi ne mangiai un po’ anch’io. E da allora diventò un’abitudine.
    Quando l’eremita se ne accorse si procurò una canna di bambù e prese a battere sulla ciotola dove conservava il cibo, anche quando dormiva. Così ci impauriva e noi non potevamo più mangiare di quel cibo.
    Un giorno un amico di Tamrachud, che si chiamava Vrihatspik venne a trovarlo. Era in pellegrinag-gio e Tamrachud lo trattò benissimo. Durante la notte l’amico cominciò a predicare su vari argomenti religiosi. Ma l’intera attenzione di Tamrachud era concentrata sulla protezione del suo cibo. E quando l’amico si rese conto che non lo ascoltava attentamente, si arrabbiò e disse:
    “Tamrachud! Mi rendo conto che non sei degno di essere considerato un amico e che sei un arrogante”
    Tamrachud si innervosì parecchio per quel fraintendimento e gli spiegò la vera ragione della sua apparente disattenzione.
    “Amico, questi topi mi danno molto fastidio. Per quanto metta in alto la ciotola, si mangiano il mio cibo. Quindi cerco di scacciarli facendo rumore con questa canna di bambù”.
    Vrihastapik gli chiese se sapeva dov’era la tana del topo. E quando l’altro gli disse che non lo sapeva disse che i topi dovevano sicuramente stare da qualche parte vicino al deposito dove venivano conservati i gioielli e gli ornamenti della divinità del tempio.
    “Ecco perché i topi possono saltare e arrivare così in alto: l’energia vitale che emana dalle cose preziose aumenta notevolmente l’ardore e la radianza di un essere vivente”.
    E a quel punto gli raccontò la storia della donna chiamata Shandili, che aveva scambiato i suoi semi di sesamo già vagliati con altri ancora da ripulire. Tamrachud si stupì poiché quello strano scambio gli sembrava una pazzia. Era proprio curioso di conoscere la storia.


    La donna che voleva scambiare i semi di sesamo

    Una volta – raccontò l’amico dell’eremita – sono andato a presenziare ad alcuni riti religiosi. Era la stagione delle piogge e un bramino mi offrì di alloggiare in casa sua per quanti giorni volessi.
    Stavo dunque in quella casa, assorto nell’adorazione delle divinità. Una mattina, sentii il bramino che diceva a sua moglie:

    “Domani è il giorno di Dakshinayan-Sankranti, che è il giorno più adatto per fare donazioni. Ho deciso di andare al villaggio vicino a chiedere elemosine. Anche tu dovresti dare da mangiare a un bramino”.
    La moglie del bramino si irritò molto perché in casa non c’era niente.
    “E’ stata la mia sfortuna sposarmi con te. Mai ho conosciuto un po’ di gioia dal giorno che ti ho sposato!” – gridò la donna.
    Ma il bramino la convinse dell’importanza delle donazioni fatte nel giorno di Dakshinayan Sanskranti. E la mise in guardia sulle conseguenze negative del desiderio eccessivo.
    Le raccontò la storia dello sciacallo ingordo.


    Storia dello sciacallo ingordo

    In una regione boscosa viveva un cacciatore. Un giorno, andando a caccia, vide un grosso cinghiale e lo uccise con le sue frecce. Ma prima di morire il cinghiale lo aveva attaccato con rabbia e lo aveva ferito seriamente, aprendogli la pancia. Così entrambi morirono delle rispettive ferite.
    Subito dopo arrivò uno sciacallo che vagava nei dintorni in cerca di cibo e fu davvero felice di trovare quei due corpi morti. Pensò che Dio gli avesse fatto davvero una grazia.
    Ma proprio lì sorse il suo problema. L’arco del cacciatore era lì abbandonato. Lo sciacallo voleva raccattare tutto quello che aveva trovato. Anche la corda dell’arco gli sembrava un buon bottino e cercò anzi di addentarla per prima. L’arco era ancora tese e aveva ancora una freccia incoccata, pronta a partire. E non appena lo sciacallo addentò la corda l’arco scattò e la freccia lo colpì alla testa. Così morì lo sciacallo ingordo.

    La storia aiutò la moglie del bramino a capire meglio. Decise che l’indomani avrebbe fatto la sua donazione. Scelse di donare un dolce detto laddus, fatto di piccole palle di semi di sesamo mescolato con zucchero di canna. Contento della decisione presa dalla moglie, il bramino andò via.
    La donna immerse i semi di sesamo nell’acqua, quindi li mise ad asciugare al sole. Ad un tratto un cane arrivato da chissà dove si avvicinò e pisciò sui semi di sesamo. La cosa dispiacque molto alla moglie del bramino. Così decise di barattare i semi con qualcuno. Ma non trovò nessuno disposto a scambiare il suo sesamo già lavato con del sesamo non lavato.
    Andò a chiedere lo scambio nelle stesse case dove già io aveva chiesto l’elemosina. Una delle donne interpellate sembrava ben disposta a scambiare sesamo non lavato con sesamo già ripulito, convinta di potersi risparmiare il lavoro, ma suo figlio la fermò dicendole:
    “Madre, secondo le leggi dello stato di Kamand non è possibile scambiare semi di sesamo non lavati con semi di sesamo già lavati. Ci deve essere un motivo per proporre un simile scambio!”
    La madre intuì la cosa e si rifiutò di scambiare i suoi semi di sesamo non lavati con quelli già lavati della moglie del bramino.

    Finita la sua storia, Vrihastpik chiese a Tamrachud se si fosse almeno reso conto della strada seguita dal topo per raggiungere il cibo. Tamrachud disse che il topo non era solo ma arrivava in compagnia di altri topi. Vrihastpik a quel punto chiese di procurargli una vanga e disse:
    “Domani mattina presto, prima che la gente si alzi, seguiremo le tracce dei topi e scopriremo la tana dove abitano”.

    Disse a quel punto Hiranyak: “Ero davvero stupito per la sua intelligenza, ma ero anche preoccupato di mettermi in salvo. Così insieme ai compagni decidemmo di abbandonare la tana e uscimmo. Ma appena usciti dalla tana, un gatto ci piombò addosso e uccise molti topi. Qualcuno dei miei compagni tornò indietro, maledicendomi. Altri erano seriamente feriti. E anch’io dovetti tornare nella tana.
    Vrihastpik aveva seguito le tracce di sangue e aveva scoperto la tana. Aveva preso il gioiello col quale ero solito dilettarmi e che mi aveva permesso di fare quei salti incredibili.
    Quando lui se ne andò dopo aver rovistato la tana, qualcuno dei miei compagni era ancora lì. E di notte avevano ripreso come al solito a saltare nella ciotola. Tamrachud se ne accorse e ricominciò a battere con la canna di bambù; ma Vrihastpik gli disse di non preoccuparsi perché ciò che permetteva ai topi di fare quei salti straordinari era stato eliminato.
    Era vero. Per quanto cercassi di raggiungere la ciotola, tutti i tentativi andavano a vuoto. Per cui i miei compagni mi tolsero il rispetto che avevano nei miei confronti e mi abbandonarono dato che ero ridotto in miseria. Così decisi di riprendermi il gioiello di cui si era impossessato Tamrachud. Lui lo teneva in una scatola che usava come capezzale quando dormiva. Mi avvicinai mentre lui dormiva e cominciai a rosicchiare la scatola. Il rumore lo svegliò e mi picchiò col bambù, ma per fortuna ne uscii illeso.

    Finita la storia Hiranyak disse:
    “Uno può essere certo di avere quel che è scritto nel suo destino. Neppure gli dei possono cambiarlo. Per cui nulla mi preoccupa o mi meraviglia, dato che quel che trovo mi appartiene per via del destino e nessuno potrà cambiarlo”.
    Il corvo e la tartaruga, incuriositi, chiesero: “Come sarebbe a dire?”
    Allora Hiranyak raccontò loro la storia del figlio del droghiere.




    Il figlio del droghiere

    Viveva in una città un droghiere chiamato Sagardutt. Un giorno, suo figlio comprò per cento rupie un libro nel quale era scritta una sola frase in una lingua molto antica:

    praptvyamartham labhate manushyam

    Significava: “un uomo ottiene che è scritto nel suo destino”.
    Sagardutt si arrabbiò molto perché suo figlio aveva speso tanto per comprare quel libro che conteneva un’unica frase; lo sgridò dicendogli che non sarebbe mai riuscito a guadagnare denaro nella sua vita e lo cacciò via di casa.
    Il figlio se ne andò in un’altra città e si fermò a vivere lì. A chiunque gli chiedesse chi fosse era solito rispondere sempre con la stessa risposta: Praptvyamartham labhate manushyam, un uomo ottiene quello che è scritto nel suo destino. Così presero a chiamarlo Praptvyamarth.
    Un giorno una principessa venuta per partecipare a una festa lo vide e rimase infatuata dal suo brillante e bell’aspetto. Si confidò con un’amica e questa andò da Praptvyamarth a dirgli dei sentimenti che la principessa sentiva nei suoi confronti. Gli disse anche che lei era decisa a morire se lui non l’avesse incontrata. Praptvyamarth chiese come poteva incontrarla. E l’amica gli disse:
    “Va al palazzo di notte. Troverai una corda che pende: arrampicati alla corda e ti troverai dentro il palazzo”.
    “Molto bene”, disse Praptvyamarth.
    Tuttavia, quando lei se ne andò, pensò che non sarebbe stata una buona azione, poiché “uno che fa l’amore con la moglie del maestro, o dell’amico, o del suo signore o di un suo assistente, va all’inferno”.
    Ma l’incontro con la principessa era nel suo destino. Girando intorno senza una meta precisa, capitò vicino al palazzo e vide una corda che pendeva. Si arrampicò per la corda e quando la principessa lo vide ne fu felicissima. Lo trattò con grande rispetto e lo fece sedere sul suo letto, dicendo:
    “Fin dal giorno in cui ti ho visto, ti ho scelto come sposo. Non posso neppure pensare di sposare un altro”.
    Praptvyamarth non disse niente. La principessa insisteva perché dicesse qualcosa. E lui le ripeté la solita frase:
    “Un uomo ottiene quel che sta scritto nel suo destino”

    La principessa pensò che forse si trattava di un’altra persona. E lo congedò.
    Procedendo sulla strada, Praptvyamarth vide un vecchio tempio e sentendosi stanco si addormentò lì. Per caso, un ufficiale della polizia locale venne in quel tempio per incontrare la sua amata. Vedendo il giovane che dormiva, temendo che la tresca venisse scoperta, gli disse di andare a dormire nel suo letto. Praptvyamarth se ne andò, ma finì per sbaglio in un altro letto.
    La figlia del poliziotto, Satyavati, dormiva anche lei su quel letto e aspettava il suo amante. Credette che lui fosse finalmente arrivato e ne fu felice. Ma l’altro se ne stava zitto. Quando lei lo costrinse a dire qualcosa, disse:
    “Un uomo ottiene quel che sta scritto nel suo destino”
    Lei si arrabbiò e lo buttò fuori. Camminando a caso, Praptvyamarth vide un corteo nuziale e si unì al gruppo. Non appena il corteo nuziale arrivò alla casa della sposa, sopraggiunse un elefante imbizzarrito e tutti corsero via per mettersi in salvo. Praptvyamarth, pensando che la sposa fosse sola si preoccupò di proteggerla. Tenendola per mano, le disse di non aver paura. Arrivò all’improvviso l’elefante e lui gli urlò contro. Per fortuna l’elefante se ne andò.
    Non appena l’elefante scomparve lo sposo tornò con tutto il corteo appresso. E vedendo quello sconosciuto che teneva la sua sposa per mano disse al padre della sposa:
    “Hai promesso a me tua figlia in sposa. Chi è quel tipo che la tiene per mano?”
    Il padre chiese alla figlia e lei disse che si trattava del suo salvatore e che si sarebbe sposata con lui.
    “Non sposerò mai uno che è scappato lasciandomi morire” – disse la sposa.
    Tutti si commossero. Il re passava di lì accompagnato dalla principessa. Chiese a Praptvyamarth di raccontare cos’era successo. Lui disse:
    “Un uomo ottiene e quel che è scritto nel suo destino”
    La principessa ci pensò su un momento e disse:
    “Neppure Dio può cambiare questo”
    E la figlia del poliziotto disse:
    “Ecco perché niente mi rende afflitta e di niente mi stupisco”.
    Infine la promessa sposa disse:
    “Ciò che è mio nessun altro lo può reclamare”.
    Il re chiese allora alla gente che si era radunata lì di raccontare separatamente la rispettiva storia. Quando cominciò a rendersi conto dei fatti si compiacque con Praptvyamarth e gli diede in sposa la principessa sua figlia. Praptvyamarth fece venire i suoi congiunti e visse felice.

    Dopo aver raccontato questa storia Hiranyak disse:
    “Un uomo ottiene quel che è scritto nel suo destino. Forse era nel mio destino rimanere deluso di questo mondo e questo amico mi ha condotto da te”.
    Disse allora Mantharak la tartaruga:
    “Di sicuro Laghupatnak il corvo è tuo amico se, nonostante fosse affamato, non ti ha mangiato”
    Mantharak suggerì ad Hiranyak di vivere vicino al lago, mettendo da parte le sue preoccupazioni e i suoi crucci.
    “Ricchezza, giovinezza, moglie e cereali stagionati non potrai averli per sempre”
    E raccontò la storia di Somilak, un folle che non poté godere della sua ricchezza perché non era nel suo destino.
    Hiranyak era curioso di conoscere quella storia.


    Somilak il tessitore

    C’era una volta un tessitore chiamato Somilak. Nonostante fosse un abile tessitore non riusciva ad avere la remunerazione e il rispetto che si sarebbe aspettato. Un giorno disse a sua moglie che, visto che il lavoro non gli dava soddisfazione, sarebbe andato a cercar fortuna da un’altra parte.
    “Il tessitore meno capace di me – disse - è diventato ricco, mentre io che sono più bravo di lui nel lavoro resto povero”.
    La moglie non era d’accordo e disse che forse restare povero era nel suo destino. Stava evidentemente cogliendo i frutti delle sue vite passate. La sua decisione di andare altrove non le sembrava giusta. Ma il tessitore aveva ormai deciso. Così un giorno se ne andò in un’altra città chiamata Vardhamanpur. Ci rimase per tre anni e guadagnò trecento monete d’oro. A quel punto decise di tornare a casa.
    Mentre attraversava una foresta si fece buio; si arrampicò su un albero di banyan e cadde addormentato. Ebbe un sogno e nel sogno c’erano due uomini che parlavano tra di loro.
    “Mio caro Kartah – diceva uno – sai bene che nel destino di questo Somilak c’è solo la ricchezza che gli è necessaria per sopravvivere. Quindi perché gli hai dato trecento monete d’oro?”
    E l’altro uomo replicava: “Karman, il mio compito è quello di procurare ricchezza a una persona laboriosa. Dipende solo da te, se il denaro resterà o no in suo possesso”.
    Somilak uscì dal sogno. E si accorse che le trecento monete erano svanite nel nulla. Diventò molto triste e anziché tornare nella sua città decise di tornare indietro. Nel giro di un anno guadagnò cinquecento monete d’oro. E di nuovo decise di tornare a casa. Per la paura di perdere il suo denaro continuò a camminare senza fermarsi. Passando attraverso quella stessa foresta incontrò due persone che somigliavano molto a quelle viste nel sogno.
    Uno di loro diceva:
    “Kartah, perché gli hai dato cinquecento monete d’oro? Come se non sapessi che nel suo destino c’è solo quel tanto che gli serve per sopravvivere”.
    L’altro disse:
    “Karman, il mio compito è quello di procurare ricchezza a un uomo laborioso. Che lui se la tenga o la perda dipende da te.”
    Sentendo la conversazione fra i due, Somilak si spaventò e controllò il fagotto per accertarsi se ci fossero ancora le monete. Svanite nel nulla anche stavolta!
    Disgustato della cosa, Somilak decise di togliersi la vita. Si avvicinò ad un albero e proprio mentre stava per stringersi la corda al collo udì una voce:
    “Somilak! Non toglierti la vita. Sono io che ho preso i tuoi soldi. Non voglio che tu abbia niente più di quello che basta per sopravvivere. Torna a casa, è meglio. Ma poiché hai avuto ancora la fortuna di vedermi puoi chiedermi un dono”
    Somilak voleva indietro le sue monete d’oro, ma la voce invisibile gliele rifiutò dicendo:
    “Tu non sei destinato a godere della ricchezza. Che cos’altro posso regalarti?”
    Somilak provò ad insistere:
    “Anche se uno è nato in una casta bassa o viene abbandonato dagli altri, se è ricco la gente lo servirà. Non fa nessuna differenza per loro, anche se si tratta di un miserabile. Amico, io ho visto gli sciacalli che aspettavano la caduta dei testicoli di un bue, per ben quindici anni!”
    Incuriosita la voce invisibile chiese:
    “Cos’è questa storia?”
    E Somilak gliela raccontò.


    Il bue e lo sciacallo

    C’era una volta un bue chiamato Tekshnavishan. Era fiero della sua forza fino all’arroganza. Viveva separato dal suo armento. Un giorno stava pascolando sulla riva di un fiume. Uno sciacallo stava lì insieme alla moglie. Vedendo i grandi testicoli del bue la moglie dello sciacallo disse al marito:
    “Guarda, quelle due pingui parti del bue presto cadranno; seguiamolo!”
    Lo sciacallo non era del tutto certo della faccenda. Disse che forse era meglio starsene lì ad aspettare che i topi venissero a bere. La moglie disse che era stanca di dover mangiare ogni giorno carne di topo. E cercò ancora di spingerlo a seguire il bue. Lo sciacallo non seppe opporsi alle pressioni della moglie e si mise a seguire il bue insieme a lei. Aspettando che i suoi testicoli cadessero, lo seguirono per quindici anni.
    Ma la cosa non si avverò. A quel punto, vista la vana attesa, lo sciacallo propose alla moglie di tornare indietro. Capendo finalmente l’inutilità degli sforzi, lasciarono il bue.


    Somilak alla ricerca del suo destino

    Conclusa la storia, Somilak disse che proprio per questo la gente era disposta a servire una persona ricca, anche se si trattava di un miserabile.
    La voce invisibile suggerì a Somilak di tornare a Vardhamanpur, dove avrebbe incontrato due figli di un droghiere. I loro nomi erano Guptadhan e Upabhuktadhan. Doveva cercare di capire la sua reale natura e allora sarebbe stato certo di ricevere qualunque cosa avesse chiesto.
    Somilak tornò a Vardhamanpur. E prima di tutto si recò a casa di Guptadhan. Costui lo trattò male e lo mandò via di casa. Somilak entrò lo stesso a forza nella sua casa. Di notte, mentre Guptadhan cenava con la sua famiglia, diede sgarbatamente un po’ di cibo a Somilak. Lui lo gradì lo stesso, mangiò e se ne andò a dormire.
    A mezzanotte sentì una voce. Cercò di capire cosa diceva.
    “Kartah! – diceva la voce – hai causato eccessive spese a Guptadan. Deve dare da mangiare a Somilak. Come potrà mai rifarsi?”
    L’altra voce rispose:
    “Karman, il mio compito è quello di far bene alla gente. Il resto è nelle tue mani”.
    Quando la mattina Guptadhan si svegliò si sentì male e dovette digiunare per tutto il giorno, per via di un’indigestione. In quel modo si ripagò delle spese. Allora Somilak andò a casa di Upabhuktadhan, dove venne accolto benissimo e trattato con rispetto. Per accoglierlo fu speso molto denaro.
    A mezzanotte Somilak sentì di nuovo quella strana conversazione:
    “Kartah! Come farà Upabhuktadhan a rifarsi delle spese sostenute per compiacere l’ospite!”
    E l’altra voce rispose: “ Karman! Questo è compito mio. Il resto dipende da te”.
    La mattina arrivò un inviato del del re, con molti regali e cose di pregio mandate dal re in persona.
    Somilak capì che il generoso Upabhuktadhan era molto migliore del misero Guptadhan. E si augurò di diventare come Upabhuktadhan.

    Finita la storia Mantharak la tartaruga disse:
    “Hiranyak, anche tu non devi preoccuparti della ricchezza. La ricchezza che non viene usata non serve a niente.”


    Il cervo in fuga

    Mentre Mantharak diceva queste cose ad Hiranyak a proposito del valore della carità, dell’accontentarsi e così via, arrivò di corsa un cervo ed entrò nel lago. Quell’improvviso arrivo del cervo spaventò Laghupatnak, il corvo. Si alzò in volo e si rifugiò sulla parte alta di un albero. Anche Hiranyak si nascose sotto un cespuglio. Mantharak si immerse nel lago. Quando il corvo si rese conto che si trattava di un cervo assetato che cercava solo di spegnere la sete, chiamò Mantharak e Hiranyak perché uscissero dai loro nascondigli.
    Vedendo il cervo terrorizzato Mantharak intuì che qualcosa lo tormentava. E disse la sua opinione al corvo. Il cervo disse che stava fuggendo dai cacciatori che avevano già ucciso molti suoi compagni. Chiese loro di proteggerlo, cosa che essi fecero volentieri.
    Così Chitrang il cervo prese a vivere insieme a loro.

    Un giorno Chitrang si era assentato. Laghupatnak il corvo volò in cerca di lui. E lo vide intrappolato in una rete. Dopo averlo confortato andò a chiamare Hiranyak. Anche Manrtharak volle recarsi sul posto. Il topo tagliò la rete coi suoi denti aguzzi e Chitrang riuscì a fuggire. La stessa cosa fece il corvo, ma la povera tartaruga Mantharak non ebbe la stessa fortuna. Arrivò il cacciatore e quando vide che Chitrang era scappato si arrabbiò molto. Vide la tartaruga che cercava anche lei di scappare e la catturò, avviandosi verso casa. Aveva legato Mantharak con una corda.
    Quando il corvo, il topo e il cervo videro che la tartaruga era stata catturata dal cacciatore, fecero subito un piano per liberarla.
    Chitrang si finse morto sulla riva del lago. Laghupatnak cominciò a becchettargli la testa. Quando il cacciatore vide la scena, convinto che Chitrang fosse morto lasciò cadere a terra Mantharak. Pensava che siccome era legata non sarebbe potuta andare da nessuna parte e cercò di recuperare il cervo. Nel frattempo Hiranyak velocemente tagliava la rete che imprigionava Mantharak, che altrettanto velocemente entrò nel lago. Non appena il cacciatore si avvicinò a Chitrang il cervo si alzò e fuggì via. Scapparono anche tutti gli altri. Vedendosi sconfitto, il cacciatore maledì il suo destino. Tornò a casa senza aver preso niente.

    Morale della storia: bisogna sempre fare amicizia con persone intelligenti.


     
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  4. schmit
     
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    CITAZIONE
    bisogna sempre fare amicizia con persone intelligenti.


    Io lo dico da sempre wink.gif

    Edited by schmit - 2/1/2006, 10:00
     
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  5. schmit
     
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    solo che ce ne sono molto poche tongue.gif ...
     
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  6. kkk-3
     
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    Io credo che la cultura orientale non possa essere capita e vissuta da un occidentale...chi dice di avere acquisito una cultura orientale dimentica che cio' che è scritto nel dna non si cancella smile.gif
     
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5 replies since 26/12/2005, 20:22   1135 views
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